A caccia di vampiri

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A caccia di vampiri

Ero perfettamente concentrata sulle armi da utilizzare. Saremmo usciti a caccia di vampiri, dovevo per forza non pensare ad altro. Là fuori non era uno scherzo, non avrebbero abbassato la guardia nel caso fossimo stati in difficoltà.

Volevo che Gabriel capisse questo, per tal motivo lo portavo fuori con me solo due giorni dopo avergli raccontato quasi tutta la storia.

Presi in mano due Socom MK23 e gliene passai una. «Direi una pistola a testa, tanto per cominciare. Io prendo anche la balestra perché sono più abituata, e un pugnale per uno scontro corpo a corpo. Tu ne prenderai uno da lancio, come quelli che abbiamo usato ieri per allenarci», dissi con voce calcolatrice. «Le boccette d’acqua santa sono obbligatorie, almeno un paio a testa, meglio abbondare. Ricorda: non si devono avvicinare troppo a te e devi coprire bene il collo in qualche modo, altrimenti diventa rischioso».

Gabriel prese la pistola, storcendo il naso. «Solo una pistola?», domandò deluso.

«Sì, preferirei evitarti scontri corpo a corpo dato che è la prima volta e non voglio che tu venga ferito. Non sempre è necessario, ma se dovesse capitare ci penserò io». Mi avvicinai a lui e gli feci alzare lo sguardo su di me. «Ti porto a caccia non perché devi fare il supereroe, ma perché devi capire che cosa significhi combattere con qualcuno che ti vuole veramente uccidere e che è nettamente più forte di te».

Roteò gli occhi, sbuffando. «So cavarmela Kim, mi so difendere».

Gli diedi le spalle, rilassando i nervi. «È già qualcosa il fatto che ti permetta di venire con me e darmi una mano, non cercare di mettermi ancora più in crisi», lo rimproverai. La sua determinazione, a volte, mi dava davvero sui nervi. Possibile che non capisse che non era affatto un gioco, ma che rischiavamo la vita?

«Ti metto in crisi?», domandò dispiaciuto.

Strinsi le labbra e mi voltai verso di lui. «Non riuscirei mai a perdonarmi se ti succedesse qualcosa, per questo sono in crisi».

Posò la pistola sul ripiano dei proiettili e mi strinse la mano tra le sue, dannatamente calde. «Ehi», mormorò sorridendomi dolcemente, «non mi succederà niente, tranquilla».

Sentii le guance pizzicare, per cui lasciai la sua mano e mi voltai. Non volevo controllarmi, ma ero pronta a scommettere che ero arrossita. «Forza», incalzai, uscendo dall’armeria. Passai in camera mia a prendere una giacca di pelle corta, intanto non sarei andata in posti affollati e nessuno si sarebbe accorto delle mie armi.

Dopo essermi preparata aprii la porta del laboratorio. «Papà, noi andiamo», lo avvisai.

Alzò la testa e ci guardò preoccupato, ma abbozzando un sorriso di incoraggiamento. «Mi raccomando, state attenti».

Ricambiai il sorriso, cercando di non farlo preoccupare più di tanto. «Sempre», risposi automaticamente. Mio padre lanciò uno sguardo di intesa a Gabriel, che annuì a labbra strette. Non c’era bisogno di parlare per capire a cosa si riferisse.

Aprii la porta della sala e uscimmo, lasciandoci avvolgere dalla fredda aria della sera. «A proposito», disse Gabriel avvicinandosi a me, «non mi hai ancora detto come si chiama tuo padre».

«Irvine».

«Irvine?».

Mi strinsi nelle spalle. «Si chiamavano così anche mio nonno e mio bisnonno. Era una sottospecie di eroe della guerra, agli inizi del Novecento. Per questo motivo gli hanno dato un nome poco comune e poco moderno», scherzai.

Puntai verso la zona di Hampstead Heath, così non ci saremmo allontanati troppo da casa e saremmo andati in una zona praticamente deserta, circondati solo dagli alberi e dal silenzio della notte. L’aria che ogni tanto sbuffava faceva muovere le foglie intorno a noi e i miei boccoli volavano dietro le spalle, sbattendo dolcemente sulla schiena.

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