Finzioni e ricordi
Mi svegliai piuttosto in forma, il sole pronto a spuntare dietro le nuvole e l’aria leggermente più calda che entrava dalla finestra semiaperta. Non credevo che stiracchiarmi sarebbe stata una sensazione così gradevole, dopo tutte quelle ore di sonno profondo. Avevo addirittura mal di testa per esser rimasta addormentata così a lungo.
O forse erano i rimasugli della sera precedente.
Decisi prima di seguire il consiglio di Gabriel e provarmi la febbre. Presi il termometro e lo infilai in bocca, aspettando qualche minuto fin quando il bip avesse detto che potevo toglierlo. Guardai il risultato: trentotto e mezzo.Merda, pensai.
Lo posai sulla scrivania ed uscii dalla camera. Che ore erano, le sette? Mi dovevo preparare per andare a scuola.
Ovviamente mio padre era già uscito di casa. Andai in cucina e mangiai latte e biscotti, ancora in pantaloni della tuta e maglietta. Accesi la tele su un canale di musica e fecero passare una canzone che adoravo, Iris dei Goo Goo Dolls. Ero una fanatica di musica metal, ma sapevo apprezzare bene o male la maggior parte dei generi.
Poco dopo la colazione, mi presi una medicina per far abbassare un po’ la febbre, mi sistemai in meno di mezz’ora ed uscii di casa con la cara vecchia Mini Cooper che mi era stata regalata da mio padre per il sedicesimo compleanno, dopo aver preso la patente.
Quando arrivai ed uscii dalla macchina, tutti si voltarono verso di me, inchiodandomi al pavimento: sguardi pieni di curiosità, di sorpresa e chissà cos’altro ancora.
Mi tenevo lo zaino a tracolla con una mano, stringendo sempre più la presa. Poi pensai “ma perché dovrebbero farmi paura? Sono io che faccio paura a loro”. Sorrisi sotto i baffi ed alzai la testa, iniziando a camminare sotto tutte quelle paia di occhi che seguivano ogni mio movimento. Non mi sentivo a mio agio, lo ammettevo, ma cercavo di non pensarci come avevo sempre fatto. Nessuno si era mai accorto di me ed io non m’interessavo agli sguardi di nessuno.
Sentii una mano afferrarmi dolcemente il gomito, tirandomi indietro e facendomi voltare. Era Gabriel con un sorriso stampato sulle guance, la giacca aperta sopra la maglietta grigia, la borsa a tracolla come la mia. Rimasi incantata a guardarlo.
«Ciao», disse con tono fin troppo sensuale, facendo scendere la sua mano dal braccio, fino ad intrecciarla con le mie dita. Mi sentivo avvampare, ma stavo bene così.
«Ciao», risposi accennando un sorriso. Non dissi altro, anche perché non riuscivo nemmeno a dire altro. Dopo qualche secondo di sguardi intensi, Gabriel iniziò a camminare sotto il naso di mezzo liceo incuriosito e basito, entrando nell’atrio col mento ben alto. Scossi la testa divertita.
Non era così male come avevo pensato fingere di essere fidanzati. Al pensiero che era solo una finta, sentii il cuore contorcersi.
Arrivammo al mio armadietto e presi i libri che mi servivano per letteratura inglese. «Allora, passato il mal di testa?», chiese lasciando, a malincuore, la mia mano.
«Sì sì, non preoccuparti. La camomilla mi ha anche aiutata a dormire. Pensa, ho dormito più di sei ore! È da segnare sul calendario».
Rise insieme a me. «Hai provato la febbre?».
Mi strinsi nelle spalle. Sentii un’ondata di caldo, ma non era per colpa di Gabriel. Era perché non stavo bene. «Sì, era bassa», tagliai corto.
Non sembrava convinto. Si appoggiò ad un armadietto accanto al mio e socchiuse gli occhi. «Bassa quanto?». Alzai gli occhi al cielo. Qualunque temperatura sopra al trentasette non gli sarebbe andata bene, molto probabilmente.
«Bassa». Dopo aver preso il libro di inglese, chiusi a chiave l’armadietto e nel frattempo Gabriel mi stava di nuovo tirando verso sé, come aveva fatto qualche ora prima. Appoggiò le sue labbra sulla mia fronte. Lo sentivo freddo ed era una sensazione di sollievo, gradevole. Le persone che passavano di lì ci guardavano con occhi spalancati, alcuni con il giornalino della scuola tra le mani, altri sparlavano poi col proprio compagno.
Vidi anche quella ragazza del giorno prima, la primina che andava dietro a Gabriel. Aveva gli occhi fuori dalle orbite, non riuscivo a dire se stava per sfuriare o piangere. La sua compagna la tirava per un braccio per farla andare via da lì e non costringerla a guardarci.
Quando Gabriel rialzò la testa, mi prese il viso tra le mani e mi fissò negli occhi, a dieci centimetri di distanza. «Sei calda Kim. Dimmi la verità, quanto avevi?».
Cercai di guardare da un’altra parte, ma mi era impossibile. Mi teneva ben salda tra le sue dita e non riuscivo nemmeno ad impormi di non guardarlo. Sbuffai. «Trentotto e mezzo».
«Fammi capire. Ieri sera avevi trentotto e mezzo e tu sei venuta a scuola?», chiese quasi arrabbiato. Anzi, ci avrei scommesso fosse stato arrabbiato con me.
«In realtà l’ho provata prima di uscire di casa», confessai sbuffando. Chiuse gli occhi e lasciò cadere indietro la testa.
«Mamma mia Kim, perché sei venuta allora? Rischi di peggiorare la situazione». Tolse le mani dalle mie guance, incredibilmente calde, e mi tirò a sé velocemente ma con galanteria, facendomi accomodare tra le sue braccia. Mi venne in mente la scena del sotterraneo. Là non stavamo fingendo...
«Ho preso un’aspirina, tranquillo. E poi non sono così fragile, entro questa sera mi sarà già scomparsa. Fidati».
Sospirò tra i miei capelli per l’ennesima volta. «Devo?», chiese.
Questa volta rischiai io di arrabbiarmi. Ma che domanda era? Alzai la testa e subito abbassò gli occhi per guardarmi. «Certo che devi. Lo sai anche tu», borbottai riappoggiandomi a lui. Più masochista di così come potevo essere? Tanto valeva entrare in pieno nella parte e lasciarmi coccolare da lui finché potevo.
Suonò la campanella dell’inizio delle lezioni e Gabriel sciolse l’abbraccio. «Ho ripasso di trigonometria ora. Ci vediamo dopo a biologia», disse sfiorandomi la guancia con la mano. Riavvicinò il suo viso al mio e mi diede un bacio sulla fronte. Lo guardai poi mentre scompariva dietro l’angolo.
Andai il più in fretta possibile ad inglese, rischiando di arrivare in ritardo. Tutti mi fissavano ancora come se fossi stata un’aliena. Per fortuna, mancava ancora qualche settimana e tutto sarebbe finito. Me ne sarei andata via da quella scuola e da quegli sguardi indagatori.
Vidi Sheila che faceva combriccola con Pam e Dalila. Parlavano dell’imminente festa, che si sarebbe tenuta la sera dopo in un lussuoso locale di Londra. Il comitato d’organizzazione, per quell’anno, non aveva badato a spese. Ovviamente, Sheila era tra gli organizzatori dei preparativi, insieme ad un gruppo di sue conoscenti delle quali non ricordavo nemmeno un nome. Ma da come descriveva il locale, sarebbe stato davvero magnifico.
Suddiviso su due piani: piano terra con pista da ballo molto ampia, banchetti per il rinfresco, numerose sedie per gli studenti e professori ed i bar. Il piano di sopra dava sulla sala da ballo, circolare, con ringhiere in ferro battuto dalla quale si poteva vedere tutta la pista. Numerosi divanetti ricoprivano le zone più ampie del piano, per permettere anche un po’ di riposo. All’esterno era stata piazzata un’ulteriore pista da ballo in legno, sotto un gazebo ottagonale, proprio accanto al laghetto. Chissà se qualcuno ci avrebbe ballato veramente.
Il professore entrò in classe, riportando tutti all’ordine.
Naturalmente, appena iniziò a parlare mi persi nei miei pensieri. Immaginavo a come sarebbe stato il ballo, il mio primo ed ultimo ballo del liceo. Chissà se avrebbero davvero eletto la regina e il principe, o se capitava solamente nei film.

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Ice Heart
Vampiri"E se le tue difese crollassero a pezzi?" Kimberly Drake, londinese di diciotto anni, ha perso sua madre e ora anche la sua unica amica è in pericolo. Dovrà misurarsi contro l'ultimo figlio del primo vampiro ad essere stato creato, Victor. Ma nel su...