Epilogo - Dopo l'apocalisse

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Epilogo - Dopo l’apocalisse

Sheila era seduta su una panchina poco lontana dai banchetti, ormai quasi svuotati. Aveva l’aria persa e fissava il vuoto davanti a sé, mentre teneva in grembo la testa di Leonard, come fosse stato un bambino. Gli accarezzava i capelli e lui teneva gli occhi chiusi, in trance.
«Leo», sospirò la mia migliore amica. Era il soprannome con cui lo chiamava quando erano fidanzati. Il ragazzo aprì gli occhi e la fissò per qualche istante, in silenzio.
«Sì?», chiese.
«No, Leo è il nome che mi farò tatuare sul polso. Leo, dato che i miei genitori sono del segno del leone, e Leo, perché ciò significa che sarò tua per sempre». Leonard sollevò di poco la testa, rimanendo incantato. Sheila gli sorrideva, con le lacrime agli occhi.
«Oh, amore», mormorò, e le tirò giù la testa per baciarla in modo inappropriato di fronte a tutte quelle persone.
«Oh mio dio», commentai voltandomi dall’altra parte.
«Già», mi appoggiò Gabriel. Eravamo accanto ad una colonna di marmo, tra il bar e una scultura di ghiaccio. Davanti a noi, mezzo istituto stava ballando sulla pista in modo scatenato: Dalila era avvinghiata al suo ragazzo Peter, Pam aveva appena rimorchiato un membro della squadra di nuoto, David Dumsay, perfino Lucas Thunderstorm ballava con una ragazza. Sperai che non le avesse fatto delle avances come aveva provato con me, o si sarebbe preso un pugno sull’altra guancia. La professoressa Mires si scatenava col preside River, mentre discutevano urlandosi nell’orecchio.
Ecco l’immagine della festa di fine anno perfetta.
Tutti allegri, spensierati, consapevoli che avrebbero dovuto abbandonare i loro amici per sempre, dopo gli esami. E i professori erano dispiaciuti quanto gli alunni.
Alcuni ragazzi accanto al banchetto curiosavano tra le damigelle senza cavaliere sedute in una sottospecie di privè con divanetti e tavolini, mentre sorseggiavano le proprie bevande. Ogni tanto si vedeva un ragazzo coraggioso avvicinarsi a loro e chiedere ad una in particolare di ballare, ma alcuni tornavano dagli amici a mani vuote, mentre gli altri lo sfottevano.
Guardai Gabriel.
Stava tenendo in mano un bicchiere finito di coca cola, con la schiena appoggiata alla colonna e gli occhi fissi sulla massa indefinita di persone che si strusciavano in pista. Le sfere stroboscopiche erano meno accecanti, ora che la mia vista si era abituata. Il mio cavaliere si voltò verso me e sorrise. Non riuscii a non ricambiare.
Poi guardò ancora una volta dalla parte dei nostri migliori amici e non riuscì a non commentare di nuovo. «Mamma mia, quasi quasi preferivo Sheila sotto l’influsso di Blood. Anche se forse è meglio che stia con Leonard. Di sicuro gli farà meno male che Arthur», disse.
«Già, ora mi toccherà di nuovo sentirla parlare di Leonard di qua e Leonard di là», mi lamentai con tanto di sbuffo. Sheila e Leonard erano ancora impegnati a baciarsi e le persone che passavano lì accanto li guardavano perplessi. Ma loro erano in un mondo a parte, come se non ci fosse stato nessuno nei dintorni.
«Forse è meglio andare a prendere una boccata d’aria fresca», propose Gabriel. Annuii immediatamente, siccome lì dentro non si respirava.
«Almeno non siamo costretti a far finta di non vedere».
Uscimmo velocemente dalla sala accalorata e piena di ragazzi che si muovevano in ogni direzione. Passammo davanti alla console del dj e Gabriel salutò un ragazzo che stava inserendo i cd, con una cuffia sull’orecchio e l’altra sotto il mento. Disse qualcosa al microfono, ma la sua voce era sovrastata da una nuova canzone, molto più potente di quella che girava prima. Mi rivolse un sorriso e io lo salutai con la mano.
Gabriel intrecciò le sue dita con le mie e mi accompagnò fuori, cercando di non passare in mezzo alla pista. Saltò davanti ai nostri piedi la professoressa Mires, che teneva in mano un bicchiere riempito di coca cola.
«Ragazzi, vi state divertendo?», ci chiese urlando. Sia io che Gabriel ridemmo, guardandoci per un breve istante.
«Certo e lei prof?», le chiese il mio accompagnatore.
«Da morire!», esclamò dopo aver sorseggiato la coca. «A proposito, ho corretto i lavori che avete fatto in classe a coppie. Il vostro era per-fet-to», disse sillabando la parola.
«Davvero?», chiesi stupita. Non capii nemmeno io il motivo della mia reazione, dato che ero abituata a prendere A + in biologia.
«Certamente, A + ad entrambi. E, caro signor Vixen, credo proprio che con questo lavoro ha superato se stesso. Non so, ma credo sia stato l’influsso benefico della signorina Drake a farle alzare il voto e a permetterle di avere A + in pagella. Questo compito contava più di tutti gli altri e mi ha davvero stupita». A Gabriel si accesero gli occhi e mi strinse la mano, senza farmi male.
«C- cosa, dice sul serio? Avrò A + in pagella?», chiese febbricitante. La signorina annuì e Gabriel non riuscì più a proferir parola.
«Adesso vi lascio, vado a scatenarmi un po’ in pistaaaaaa!», e scomparve tra la folla. Noi, ancora in piedi in mezzo a tutte quelle persone che andavano e tornavano, ci guardammo negli occhi. Fino a quando Gabriel mi strinse tra le braccia e mi sussurrò un “grazie” all’orecchio.  
Riprendemmo a camminare e varcammo la porta dell’uscita nel giardino sul retro. L’aria fredda della mezzanotte mi sfiorò le guance facendomi sentire sollevata. Era davvero piacevole essere
rinfrescata, dopo aver passato tutto il tempo a soffocare all’interno. Passammo accanto al gazebo ottagonale e cercai di vedere se ci fosse ancora la cenere nera come il carbone. Non riuscii a vederla, quindi pensai che il vento l’avesse portata via con sé. Tirai un sospiro di sollievo.
Superammo in gazebo ed entrammo nel riquadro di sabbia dove c’erano le altalene, a circa una decina di metri dalla sala da ballo. Anche lì intorno era tutto illuminato, con luci bianche appese agli alberi e rose rosse intrecciate col supporto di ferro delle giostre. Si sentiva il loro profumo, unito a quello dell’aria fresca che scuoteva i miei boccoli. Mi tolsi le scarpe e camminai a piedi nudi sulla sabbia congelata, sentendomi al settimo cielo. Non credevo che camminare scalzi avrebbe potuto farmi sentire così rilassata.
Mi sedetti sulla tavoletta di legno dell’altalena, dondolando senza l’aiuto dei piedi. «Oh, come si sta meglio senza scarpe», canticchiai con la testa piegata all’indietro. Non c’erano nuvole ed il cielo era limpidissimo, punteggiato da infinite stelle. Sopra di me, c’era la luna, bianca e splendida come non avevo mai visto. Gabriel si fermò davanti a me, anche lui senza scarpe.
«Dai, non può essere così tremendo camminare sui tacchi per voi ragazze». Lo fulminai con lo sguardo, stringendo le labbra.
«Accomodati. Le scarpe sono lì», borbottai indicandole con un dito. Il ragazzo si avvicinò ai miei trampoli, prendendone uno tra le mani. Guardo la suola, poi tentò inutilmente di infilarsela.
«Trentotto, mi dispiace. Io porto il quarantadue», disse ridacchiando e lasciando cadere la scarpa accanto alle altre. Mi appesi con le mani alle catene di ferro, fredde e umidicce. Scossi la testa, guardandolo.
«Sì, sì tutte scuse». Chiusi gli occhi, appoggiando la testa accanto ad una mia mano. Non sentii i passi di Gabriel e, all’improvviso, prese le catene e mi diede una piccola spinta.
«Per la cronaca, ho già provato a camminare sui tacchi», disse.
Inarcai un sopracciglio, anche se no poteva vedermi. «E quando, scusa?».
«Avevo perso una scommessa con Leonard e ho dovuto indossare delle scarpe col tacco, in un negozio. Non ti dico che figura». Scoppiai a ridere, mentre le mani di Gabriel premevano dolcemente sulla mia schiena, dandomi una nuova spinta.
«Ma non ci hai camminato per un’intera serata», gli feci notare.
Lo sentii sospirare. «Non importa, mi era bastato quello. Comunque, mi sono poi vendicato, non credere che io abbia subito in silenzio. Ad un’altra scommessa, lui perse e la sua pena è stata molto più vergognosa della mia». Ridacchiò tra sé, spensierato.
«E qual è stata?».
«Ha dovuto indossare un vestito di sua madre ed è dovuto venire ad allenamento a piedi con quello. Ovviamente insieme a me, altrimenti avrebbe barato. Non ti dico quante me ne ha dette dopo».
«Oh signore...», commentai.
«Zitta però, nessuno deve saperlo. È successo un po’ di tempo fa e nemmeno Sheila ne è al corrente, quindi acqua in bocca». Mi voltai verso di lui e gonfiai le guance, facendo finta di non poter parlare. Quando si sciolse in un sorriso divertito, lasciai uscire tutta l’aria ed alzai di nuovo la testa per guardare la luna.
“Ti trasformerò nella Regina Della Notte”, aveva detto Sheila.
Sospirai. «Brillerà anche di luce riflessa, ma la luna è sempre stupenda», dissi con un filo di voce. Gabriel non rispose e lo immaginai alzare gli occhi al cielo.
«Preferisco il sole che brilla di luce propria, e poi è una stella mentre la luna un satellite. Sono molto più belle le stelle dei satelliti», affermò.
«Sai», iniziai, «dicono che con la luna piena escono allo scoperto i licantropi».
Ci fu un momento di silenzio. Forse poteva essere una di quelle tipiche affermazioni che, appena ci eravamo conosciuti, lo irrigidivano e lo lasciavano perplesso. «Siamo armati?», chiese infine, ridacchiando.
«No, purtroppo ho lasciato a casa le pallottole d’argento. E poi a me non stanno antipatici; sempre meglio di quelle sanguisughe». Scusa mamma.
«Come non ti stanno antipatici?», chiese confuso.
Feci spallucce. «È una storia troppo lunga e non ho voglia di raccontarla. Te la dirò se saremo ancora vivi dopo l’incontro con Victor».
«Promesso?», chiese.
«Promesso».
L’aria fischiava dolcemente tra le mie orecchie e s’infrangeva sul mio viso. Mi vennero i brividi e sperai che Gabriel non se ne fosse accorto. Lui aveva pure la camicia addosso, ma io ero senza maniche. Cercai di non pensare alle piccole scosse che sentivo.
Perché avevo freddo?
Di solito non lo pativo, ma in quel momento era tutto diverso, tutto fuori da ogni schema, tutto l’opposto di come avrebbe dovuto essere.
«Voglio spiegarti perché preferisco il sole e voglio paragonarlo a qualcuno», disse.
Sospirai sorridendo. «Sentiamo», risposi. Non parlò subito.
«Lo paragono a te».
Accennai un leggero scatto verso di lui, poi mi bloccai. «A me?», chiesi. «Mi sa che ti sbagli, il sole fa bene alle persone».
«Beh, secondo la professoressa Mires hai avuto un buon influsso su di me». Rimasi zitta a sciogliere l’evidenza nel mio petto.
«Una A + non è un granché come vantaggio», lo contraddissi.
«Dici tu!», esclamò alzando la voce. Nessuno ci avrebbe comunque sentiti, perché nessuno era nel giardino esterno. «Ad ogni modo, non parliamo dell’influenza del sole, ma di tutti gli altri aspetti».
Sospirai. «Quali aspetti?».
«Hai ancora il pugnale nascosto?», chiese sviando l’argomento. Annuii aggrottando le sopracciglia e poco dopo Gabriel, veloce come un ghepardo, lo prese da sotto la mia gonna e lo lanciò accanto alle nostre scarpe. Appena sentii la sua mano sfiorarmi la pelle le mie guance arrossirono furiosamente. Iniziavo a sentire meno freddo. «Sai, voglio essere sicuro che non tenterai di pugnalarmi per quello che dirò».
Mi voltai divertita e circospetta. «E perché mai dovrei farlo?», chiesi ancora con la mente annebbiata.
Fece spallucce. «Non si sa mai». Non parlò finché non tornai a fissare la sabbia davanti ai miei piedi. «Per cominciare, il sole scalda. E sai cosa porta questo?».
Alzai gli occhi al cielo, riflettendo con un ghigno dipinto sul volto. «L’effetto serra?», dissi scherzosa.
Lo sentii sbuffare. «Andiamo Kim, cerca di seguirmi sul serio!», si lamentò.
«Va bene», sospirai, «il calore fa sviluppare le piante».
«Giusto, le piante. E le piante cosa fanno?».
Aggrottai le sopracciglia, in preda ad un imminente mal di testa. «Vivono?», chiesi insicura.
«Esatto, hai afferrato il concetto».
Scossi il capo, sempre più confusa. «Non ti seguo». Ancora silenzio. Si alzò l’aria e mi strinsi nelle spalle. I miei capelli erano mossi dal vento ed ogni tanto picchiavano contro le mie guance intorpidite. Gli occhi erano due fessure.
«Kim, raggruppa tutto quello che fa il sole, poi cambia i soggetti. Il sole sei tu, le piante le persone, la vita... beh, è la vita». Abbassai la testa.
«Gabriel», mormorai leccandomi le labbra, «non mi pare che io faccia tanto bene alle persone e lo hai visto anche tu. Non dimenticare che sono la Principessa di Ghiaccio».
«Okay, allora al posto delle persone metti me. Io raggruppo le piante». Non risposi ed il mio cuore si fermò per un istante. «Quello che sto cercando di dirti è...», e s’interruppe. Fece un grosso respiro, mentre io lo trattenevo per controllare il tremore. «Kim, non capisci che da quanto sto con te ho riniziato a vivere? Come il sole con le piante tu mi fai lo stesso effetto: mi scaldi, mi dai la forza per andare avanti. Guarda, senza di te a quest’ora probabilmente Sheila non sarebbe stata più tra noi. Non puoi dire di non avere un effetto benefico sulle persone, con tutte queste prove inconfutabili». Rimase in silenzio per qualche secondo, mentre io mi sentivo sull’orlo di un precipizio, poi continuò: «E non dimentichiamo anche che il sole è la stella più bella dell’universo».
Improvvisamente, il mio cuore aumentò i battiti in maniera smisurata. Cercavo di non tremare e l’unico modo per non farlo era stringere la presa delle catene di ferro dell’altalena. Tutti i discorsi di Sheila erano confusi nella mia mente e riuscivo solo ad associare le parole Gabriel e innamorato.
«Questa non è però la caratteristica fondamentale», precisai. Specialmente non ci credevo. Le sue mani continuavano a spingere la mia schiena, facendomi sollevare dal terreno di qualche centimetro in più. Non dava molta forza, comunque. Preferiva tenermi vicino a sé.
«Hai ragione», mormorò. Quando tornai da lui, il vento cessò. Ero ferma, sollevata all’indietro. Gabriel aveva le mani poco più in basso delle mie e mi stava tenendo ferma attaccata al suo petto. Mi voltai istintivamente e notai che era molto più vicino di quanto credessi. I suoi occhi elettrici, illuminati dalla luce della luna, erano blu notte e mi stavano incendiando. Non d’odio, non di preoccupazione, non d’ira...
«Prima, quando mi hai detto che saresti tornata da me», sospirò tra i miei capelli, «dicevi sul serio?».

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