Megan

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Megan

Appena chiusi la porta alle mie spalle, mi avvicinai alla scrivania e strinsi le foto di mia madre nella mano.

Perché non vuoi che io ti veda?, mi chiesi nella mente. Perché sei scappata oggi, perché non mi hai nemmeno salutata?
Io ero sicura di averla vista, era davanti a me, con gli stessi lineamenti che aveva l’ultima volta. Era cambiata un po’, certo: aveva quel fascino da vampiro, inumano, sembrava così fragile. Gli occhi erano azzurro cielo – come una vera vampira – e ipnotici, ammalianti

Tutto quello mi faceva pensare che mia madre mi stava tenendo d’occhio, che sapesse di ogni mia mossa. Sentii il cuore stringersi nel mio petto, senza motivo. Sempre con la foto in mano mi avvicinai alla finestra e la aprii, bagnandomi completamente volto e capelli a causa della pioggia che aveva cominciato a scendere di stravento.
La richiusi e posai la foto al suo posto, sulla scrivania. Andai poi in cucina per prepararmi qualcosa da mangiare. Mentre facevo cuocere una frittata veloce, andai in laboratorio.
«Papà, vuoi qualcosa da mangiare?», chiesi entrando. Si stava infilando il camice, davanti al tavolo da lavoro. Di nuovo il volto stanco, le occhiaie marcate e la speranza – nemmeno tanta – dipinta in volto.
«No non ti preoccupare, ho già mangiato un panino prima. Grazie comunque». Tesi la bocca ed uscii, tornando ai fornelli.
La pioggia era sempre più forte, tanto che sembrava quasi stesse grandinando. Rimasi seduta da sola a tavola, mentre mangiucchiavo gli ultimi pezzi di frittata. Non avrei avuto nulla da fare quella sera. Non intendevo stancarmi con allenamenti su allenamenti o il giorno dopo non avrei retto.
Il giorno dopo, pensai. Chissà cosa sarebbe successo. Nessuno lo poteva sapere.

E se non fossi riuscita ad uccidere Arthur Blood? No, io dovevo ucciderlo. Kimberly Drake lo avrebbe ucciso senza alcun problema. Avevo tutte le precauzioni necessarie ed ora potevo ancora contare sull’aiuto di Gabriel.
Gabriel...
Chissà cosa stava facendo. Magari lui, testardo come un mulo, era a casa ad allenarsi in chissà quale modo e con chissà quali “armi”. Io non volevo coinvolgerlo, ma la nostra era una copertura. Noi andavamo al ballo insieme solamente per uccidere, non per divertirci. Gli avrei fatto passare la serata più schifosa della sua vita e me ne sentivo un po’ in colpa. Sarebbe potuto uscire con tutte le probabili reginette del ballo, mille volte più carine ed interessanti di me.
Iniziai ad andare sotto la doccia.
Gabriel avrebbe potuto fare l’intrattenitore. Poteva tenere occupata Sheila, mentre io conficcavo un paletto di frassino nel cuore fermo di Arthur. Così sarebbe andato tutto liscio e Victor si sarebbe vendicato solamente su di me, lasciando fuori dalla storia Gabriel. Io avevo suscitato questo guaio, io dovevo impedirlo.
Accesi lo stereo poco prima di buttarmi sotto il getto tiepido della doccia. La musica rock ad alto volume sovrastava il rumore infernale della tempesta, immergendomi in un mondo del tutto diverso da quello in cui vivevo.
Mi immaginai in questa casa, a Londra, il giorno di Natale. Mia sorella saltellava a destra e a sinistra per aver ricevuto una bambola di pezza da nonna Peg. Mia mamma e mio papà la guardavano allegri e spensierati, mentre io stringevo tra le mani l’assegno per l’università, così avrei evitato di usare i miei soldi e impiegarli in altri modi. C’erano addobbi ovunque, la casa era rosso sangue a causa dei nastri e delle palline appese lungo la scala, in cucina, in corridoio e sulla porta. Per non parlare dell’illuminazione esterna, degna d’invidia da parte dei nostri vicini.
Mia madre adorava il Natale. Era un modo per stare tutti insieme, la nostra famiglia e i nonni, qualche volta anche i cugini di Dublino. Erano passati tre anni da quando non ne festeggiavo più uno.
Rimasi con la testa all’indietro, mentre l’acqua cadeva picchiettando sulla mia pelle e dandomi un senso di relax. Avessi potuto rimanere così per ore lo avrei fatto volentieri, ma non avrei voluto che papà rischiasse un infarto a causa della bolletta troppo alta.
Uscii dopo circa venti minuti e abbassai il volume dello stereo, fino a farlo diventare un sussurro di sottofondo. Mi strinsi nell’accappatoio, strizzando un po’ i capelli prima con le mani, poi con l’asciugamano. Mi pettinai, sciogliendo tutti i  nodi che si erano formati, e misi un po’ di schiuma. Non avevo ancora idea di come li avrei acconciati per la festa, ma Sheila aveva già annunciato una curata seduta di bellezza dove si sarebbe improvvisata parrucchiera, truccatrice e stilista.

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