Il mio funerale

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Scomoda.
Fu il primo pensiero seguito da una sensazione di freddo e da uno strano formicolio. Spalancai gli occhi ma dovetti rinchiuderli immediatamente, accecata da una luce che proveniva dal soffitto. Mi mossi andando a sbattere contro qualcosa di duro e gelido, chissà perché nessuno mi aveva ancora svegliata.
Feci un lungo respiro, cercando di schiarirmi i pensieri.
Ero andata da Alex per finire i compiti di storia e poi ero tornata a casa o almeno credo di essere tornata a casa. Era come se avessi un vuoto, i ricordi erano sfuocati e la mia mente si rifiutava di fare un ragionamento razionale.
Mi imposi di aprire gli occhi e, ancora prima di riuscire a mettere bene a fuoco, capii che quello non era il mio letto. Non vedevo né il soffitto costellato di stelle né i miei peluche, il mio sguardo seguiva delle volte a crociera e gli affreschi dei Santi.
Ero in una chiesa. No, non ero soltanto in una chiesa ma ero dentro a qualcosa di simile a una bara. Il panico mi assalì, la parte razionale del mio cervello cercava di trovare una soluzione mentre il corpo reagiva da solo. Mi misi a sedere e guardai le persone in piedi vestite di nero.
Le lacrime iniziarono a scendere da sole, doveva essere un incubo, tra poco mi sarei alzata e tutto sarebbe tornato nella normalità. Uscii dalla bara e vi guardai dentro. Ero ancora là, sembravo che stessi dormendo con indosso un abito grigio e i capelli raccolti in una rigida treccia. Scossi la testa, lasciando scorrere le lacrime e la paura che mi attorcigliava lo stomaco. Avevo solo diciassette anni, non potevo essere morta.
Mi girai verso i presenti fino a quando non scorsi i miei genitori. Li raggiunsi, sfiorando il braccio di mia madre e appoggiando la testa sulla spalla di mio padre.

"Mi dispiace" sussurrai, conscia del fatto che loro non potessero sentirmi.

Nessuno poteva sentirmi.
L'aria iniziò a mancarmi, i polmoni minacciarono di esplodere per il dolore acuto e improvviso, la mente si offuscò. Faceva male, tanto male. Mi accasciai per terra, mentre le persone iniziarono a superarmi, una alla volta, diretti a darmi il loro ultimo addio. Mollai un urlo per il dolore e la frustrazione, non riuscivo più a sopportare quella sensazione. Poi, d'un tratto, tutto si fermò.
Un ragazzino, appoggiato sull'altare, mi guardava con uno sguardo sfrontato.

"Ciao" disse.

Era piccolo, mingherlino e sembrava ammalato.

"Ciao" risposi.

Non sentivo più il vociare e i pianti delle persone, era come se tutto intorno a noi fosse svanito. Lui si avvicinò a me e mi porse la mano.

"Andiamo?" chiese.

"Sono morta?" mi lasciai sfuggire.

"Sì".

Scossi la testa indietreggiando, la verità arrivò come uno schiaffo: veloce e dolorosa. Rimasi seduta sul cemento, come era potuto accadere che fossi morta?

"Anche tu sei morto?"

Il bambino mi guardò serio, come se non sapesse che reazione aspettarsi da me, come se temesse di ferirmi o forse di rimanere ferito.

"No, non ancora almeno. Andiamo, Sarah?"

"Dove?"

Era tutto così surreale, se ero davvero morta perché ero ancora lì? Insomma, non avrei dovuto essere sottoterra a marcire come gli oggetti vecchi dimenticati in soffitta?

"A giocare" rispose, spazientito.

"A giocare?"

"Sì, ho un gioco da proporti. Si chiama il "Teorema della Vita" ed è molto simile agli scacchi".

Scacchi. Ci giocavo spesso con mio nonno da bambina, ma erano anni che non toccavo una pedina. Accettai la sua mano e mi alzai, finalmente il bambino mi sorrise raggiante.

"Vedrai che ti piacerà. Comunque io sono Henry" disse, continuando a tenermi per mano.

Ricambiai il suo sorriso forzatamente e insieme a lui percorsi la navata centrale verso il portone socchiuso. Prima di uscire, mi girai a guardare per l'ultima volta i miei genitori e poi notai anche il mio gruppo di amici e compagni. Avrei voluto abbracciarli, dire a quanto ci tenessi a loro e quanto mi dispiacesse lasciarli in quel modo.
Scacciai le lacrime, conscia di non potere fare più nulla.

"Allora Henry, spiegami le regole di questo gioco".

"Allora Henry, spiegami le regole di questo gioco"

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