IV

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Clarke Griffin annaspa rannicchiata nell'aria buia del suo monolocale poco distante dall'atelier.
E' completamente nuda e sente il suo seno aderire alla pelle secca delle ginocchia che ha portato al petto qualche istante prima.
Accanto a lei nel letto sfatto sente Lexa respirare regolarmente, deve essersi addormentata già da un po', le coperte sono ancora impregnate del loro sudore, dei loro odori e rendono acre l'aria nella stanza.
Hanno fatto l'amore quella notte, si sono aggrovigliate, si sono assaggiate, hanno passato in rassegna ogni centimetro quadrato dei loro corpi, della loro carne viva.
Ha percepito un flebile calore risalirle dal ventre mentre Lexa Woods faceva proprio il suo corpo assaporandola nel profondo, ha sentito quel brivido caldo percorrere tutta la sua persona, risvegliare i suoi sensi, le sue voglie recondite ma il suo cuore è restato immobile mentre la sua gola lasciava libero il passaggio a gemiti di piacere.
Non un battito fuori posto.
Niente palpitazioni accelerate.
Ed è questo che la tormenta ora, quel dubbio si insinua nella sua mente e non riesce a scacciarlo, non trova le prove necessarie per reprimerlo definitivamente.
Non hanno fatto l'amore lei e Lexa.
Hanno scopato.
E la secca volgarità di quella parola la disgusta.
A differenza di molte coetanee non ha mai compreso il fascino dei rapporti occasionali ed ha sempre denigrato i termini riferiti al sesso che non contemplano alcun sentimento.
Eppure non può ritrarsi, lei non ha sentito nulla dentro di sé, per la prima volta nella sua vita Clarke Griffin ha semplicemente colmato un bisogno primitivo e dannatamente fisico.
Sente una lacrima sgorgarle, compiere un percorso irregolare sul suo viso, rigarle la guancia e bagnarle il labbro superiore, quando la lingua, in un gesto automatico, raccoglie quella minuscola goccia, sente il sapore salato sprigionarsi all'interno della sua bocca ed il senso di colpa pervaderla.
Vorrebbe urlare, piangere a dirotto, sfogarsi in qualsiasi modo ma non può; lei è lì e, se non fosse per le lacrime che le appannano la vista, non avrebbe problemi a scorgere nella penombra della notte che sta per lasciare il proprio posto all'alba, la sagoma della sua borsa da viaggio poggiata sul tavolino accanto l'angolo cottura.
Dunque rimane avvolta nel lenzuolo in quella penosa posizione fetale e cerca disperatamente di aggrapparsi ad un pensiero che sia in grado di tranquillizzarla, vuole galleggiare, non può permettersi di affogare proprio ora che i suoi sogni stanno divenendo realtà.
Ma se c'è una cosa che Clarke ha imparato a fare è ritrovare la propria calma, rimanere lucida anche nelle situazioni più precarie, è un qualcosa che deve aver ereditato da sua madre, dalla freddezza necessaria per diventare uno dei migliori chirurghi dello Stato.
Percorre allora mentalmente le immagini della serata, della sua personale sera: rivede i volti sorridenti degli amici, lo sguardo orgoglioso di suo padre, le espressioni compiaciute di critici ed esperti, poi la sua volontà tentenna, si fa debole e l'ultima immagine che le appare riguarda delle lentiggini su un viso olivastro che sembra fiero di riservare al mondo intero un sorriso sghembo.
I singhiozzi si placano, cessano di scuotere il suo corpo.
Stringe ancora di più le gambe al petto e cerca di riprendere il controllo sulla sua respirazione, l'unico rumore che le arriva ora è il ticchettio preciso della sveglia che giace sul comodino al suo lato del letto.
I suoi mesti lamenti che ha tentato di soffocare e silenziare sembrano d'un tratto acqua passata.
Poi due occhi verdi capaci di virare al blu quando fuori c'è brutto tempo le pervadono la memoria.
Il viso di Octavia Blake è davanti a lei, raggiante e pieno di entusiasmo.


La prima lettera che ricevette dalla minore dei Blake arrivò un mese dopo il loro trasferimento, era fine Agosto e Clarke era tornata a casa dopo un'intera giornata passata con sua madre che le aveva proposto di inserirsi in un programma di aiuto per tossicodipendenti ed alcolisti presso una clinica convenzionata dall'ospedale in cui lavorava.
Avrebbe fatto volontariato, avrebbe imparato ad assistere persone in difficoltà, bisognose d'aiuto ma soprattutto di qualcuno in grado di ascoltare e la giovane Griffin si sentiva particolarmente tagliata per quel tipo d'esperienza.
Senza contare che i suoi piani erano ben chiari all'epoca: entrare alla facoltà di Medicina della Georgetown University con la sua media ed un'esperienza simile alle spalle sarebbe stato quasi un gioco da ragazzi.
Jake stava per andare in palestra quando le incrociò sulla porta d'ingresso e baciandole dolcemente disse con tenera nonchalance
"C'è della posta per voi, ho messo tutto sul tavolo in cucina, ci vediamo dopo."
Bastò quella semplice frase a far scattare Clarke che in pochi minuti si ritrovò a spulciare le buste bianche raggruppate sul tavolo sino a trovare quella con il suo nome sopra.
Un sorriso le spalancò la bocca, la grafia tonda e piccola in penna blu non mentiva, era di Octavia, non aveva nemmeno bisogno di leggere il nome del mittente sul retro.
In uno slancio e lanciando un grido di gioia si precipitò in camera sua.

Avevano deciso di scriversi in quel modo la sera della loro festa di addio, prima di avventarsi sugli alcolici, prima che arrivassero tutti gli altri, O' e la giovane Griffin si erano ritagliate uno spazio tutto loro.
Si erano promesse che si sarebbero sentite almeno una volta alla settimana, che tra loro non ci sarebbero stati segreti, che avrebbero esorcizzato la distanza perché la loro amicizia avrebbe resistito all'oceano e ai chilometri.
Poi a Clarke venne in mente l'idea delle lettere e la piccola Blake si trovò ad essere completamente affascinata da quella proposta.
Mail e messaggi sarebbero spariti, aveva detto la biondina, archiviati nei loro dispositivi ma la carta no, le parole impresse su di un foglio sarebbero rimaste come testimonianza del loro rapporto; le avrebbero conservate, avrebbero potuto sfiorarle e rileggerle fino allo sfinimento.
"Magari un giorno, quando saremo anziane le leggeremo insieme ai nostri nipoti."
Aveva azzardato O'.
E così con quella proiezione nel futuro un po' giocosa ed inverosimile avevano sancito il loro accordo: rimanevano valide le regole riguardo videochiamate e messaggi, ma, una volta al mese, si sarebbero scritte per davvero.

C'era una foto insieme al testo scritto elegantemente su carta colorata: Octavia sorrideva verso l'obiettivo, abbracciava il fratello che invece sembrava non essersi accorto che qualcuno lo stesse immortalando ed aveva il viso rivolto altrove.
La minore dei Blake appariva serena, persino entusiasta.
I due si trovavano su una spiaggia ampia, la sabbia bianca ed il mare di un blu intenso.
Sembrava tutto così finto.
Clarke rimase cinque buoni minuti a fissare l'immagine e sentì le gote arrossarsi leggermente quando i suoi occhi acquamarina indugiarono su Bellamy poi però scacciò la smorfia che si era fatta spazio tra le sue labbra e si mise a cercare una puntina che le permettesse di conservare la fotografia sulla lavagnetta di sughero che teneva proprio sopra la scrivania.
Rilesse la lettera tre volte in tutto, compresa la postilla che O' aveva scritto avvertendola che avrebbe voluto trovare una foto senza un elemento disturbante come suo fratello ma le era apparso impossibile, volente o nolente erano sempre insieme.
Clarke sorrise allora, una volta arrivata a quel punto, per tutte e tre le volte di seguito la sua bocca si dischiuse in una curva smagliante.

Octavia stava bene, più o meno, la casa di sua madre era grandissima, nulla in confronto a 'quella catapecchia' in cui vivevano a Washington; i suoi nonni erano gentili e parlavano con un accento che la divertiva parecchio.
Aveva deciso di farsi raccontare la storia della loro famiglia e dunque si vedevano ogni giovedì per una passeggiata in riva al mare e per chiacchierare, far riemergere racconti di ricordi ereditati di generazione in generazione.
Il giorno prima si era iscritta al maggior liceo della città, era questo che la rattristava e forse le metteva una leggera apprensione. Le sarebbero mancati tutti ma soprattutto le sarebbe mancata lei, la sua compagna di avventure, la sua unica e sola migliore amica.

'Non so come farò senza di te. Ma so che proverai la mia stessa identica sensazione e allora, inevitabilmente, saremo di nuovo vicine, una accanto all'altra, come sempre.'

Clarke si era messa subito a stendere una bozza per la sua risposta, quella lettera era una delle cose più belle che le fossero accadute in quel periodo di lontananza e non avrebbe mai e poi mai voluto spezzare l'incantesimo, aveva fretta e le parole presero forma sul foglio a quadretti che stava utilizzando in men che non si dica.
Solo quella sera, rileggendo ogni frase che stava riservando all'amica, si rese conto che c'era qualcosa che non sapeva come dirle, un piccolo fatto che risaliva a quella festa, a quell'ultima nottata passata insieme, non aveva trovato ancora il coraggio di comunicarle nulla né per messaggio, né durante l'unica videochiamata che avevano fatto.
Si era ripromessa che le avrebbe raccontato tutto per iscritto ma quando poi si era ritrovata con il viso sul foglio le parole erano rimaste come intrappolate nella sua mente.
Forse Octavia già sapeva e si stava ponendo solo dei problemi insensati, forse suo fratello le aveva parlato, dopotutto quei due sembravano condividere qualsiasi cosa.
Probabilmente sarebbe stata lei a curiosare nella prossima lettera, ne era quasi sicura e finalmente avrebbe potuto parlarne con qualcuno, raccontare che da quel giorno si era sentita diversa, aveva ricominciato a percepire le emozioni e forse, banalmente, si era resa conto di provare qualcosa di cui non si credeva capace e che aveva sperato di trovare da sempre.

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