Pioggia di Cenere - 10

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Lector scrutò fuori dall'antica bifora crivellata di proiettili. Nello spiazzo su cui si affacciava il vecchio complesso di palazzi in cui il comando degli astartes si era riunito – i capitani della terza e quarta compagnia, il loro seguito e appena tre o quattro squadre, compresa quella di Lector, oltre ad un paio di ufficiali della FDP – il fumo vorticava seguendo le correnti calde create da roghi e incendi. Oltre la cortina di nebbia oleosa si intravedevano altre rovine di edifici diroccati, in cui si nascondevano mucchi e mucchi di orki. Lector provò un moto di disgusto pensando alle masse di xeno che stavano insozzando le venerabili sale imperiali, ma un leggero giramento di testa gli fece comprendere che la nausea non era creata, probabilmente, soltanto dal ribrezzo per l'avversario.
Tentò di di dissimulare e si avvicinò al tavolo attorno al quale si erano raccolti gli ufficiali, che discutevano animatamente. Il gruppo di imponenti soldati era reso in qualche modo grottesco dalla presenza di Hibris, che seguiva in silenzio la conversazione. Dalle altre sale della costruzione veniva ogni tanto il vociare indistinto di gruppi di civili, recuperati da marine e FDP e raccolti in quelle stanze.
«Continuo a credere che sia meglio fermarsi qui» stava dicendo Matias, incrociando le braccia e fissando corrucciato Josua, «fino a che non avremo altri ordini dal Maestro.»
«Il Maestro Alartel ha chiaramente detto che dobbiamo riprendere le batterie orbitali» ribatté Josua, con tono deciso.
«Ma non poteva prevedere questa resistenza. Prendere il cancello è stato nulla in confronto agli scontri necessari qui nell'interno.»
«Non mi aspettavo ringraziamenti, Matias» fece la voce sepolcrale di Hibris, «e in effetti non ne ho avuti.»
Il capitano della quarta compagnia si voltò verso la dreadnought, col volto contratto dallo sdegno. «Hai disubbidito agli ordini, Hibris. È una cosa talmente inaccettabile che preferisco valutarne le conseguenze soltanto dopo che questa battaglia avrà avuto termine.»
«Non ho disubbidito ad alcun ordine, Matias.»
«Hai caricato da solo il cancello di questa fortezza» rispose l'altro, quasi urlando. Lector si fece da parte, poggiandosi ad un pilastro. Gli astartes del seguito di Matias rimanevano immobili, senza guardare nessuno. Un paio di sergenti confabularono tra di loro.
«E con ciò?» fece Hibris in modo, se possibile, divertito.
«Nessuno te l'ha ordinato.»
«Ma nessuno mi ha ordinato il contrario. Ad ogni modo, non voglio dilungarmi su quanto il mio contributo sia stato utile alla causa. Vi prego, andate avanti.»
Matias si tese ancora di più e gli mosse un dito contro. «Tu...»
«Matias» fece la dreadnought, «potrei essere tuo padre, se non addirittura tuo nonno. Fortunatamente per entrambi l'Imperatore ha deciso diversamente, ma ciò non toglie che tu debba portare del rispetto verso i più anziani.»
«Signori» fece Josua, mettendosi tra loro due, «sapete entrambi che ci sono questioni più impellenti di questa. Non abbiamo avuto altre notizie dal Maestro, ma sappiamo che la fortezza verso cui si è recato con la quinta compagnia non aveva la concentrazione di Orki che è presente qui. Qualsiasi sia la sua opinione su Aladopolis, però, i disturbi alle comunicazioni impediscono di venirne a conoscenza. Cerchiamo perciò di concentrarci sul nostro compito, e non su ciò che accade fuori da questa città.»
Matias si voltò stizzito, muovendosi lentamente verso le finestre. Da fuori giunse l rombo di velivoli di passaggio a bassa quota, mentre ogni tanto arrivavano gli schiocchi secchi di raffiche di mitraglia.
«Gli ultimi ordini sono quelli di conquistare le batterie. Atteniamoci a quelli» concesse, con un tono nervoso.
Josua fece per rispondergli, ma un ufficiale della FPD si intromise, tenendosi una mano sul ricevitore che portava installato nell'orecchio. «Signori» disse, «l'addetto vox ha un contatto con le vostre navi in orbita. Ammiraglio Alessa.»
«Finalmente» sbottò Matias, rianimandosi, «passate la comunicazione sul nostro canale.»
Josua avvertì un leve ronzio nel vox, che si tramutò lentamente nella voce di Alessa.
«Qui nave Anathema della flotta Ammit, rispondete.»
«Vi riceviamo» disse Matias, mentre tutti gli astartes ricevevano la conversazione nel vox personale.
«Sia ringraziato il Trono» disse la donna, «sono ore che tentiamo di contattare voi sulla superficie. La situazione in orbita è disastrosa.»
I due capitani si guardarono velocemente. «Come sarebbe? Avevamo detto che gli orki avevano solo un incrociatore in grado di...»
«Confermo che si tratta solo di una nave» ribatté Alessa, «ma è impossibile attaccarla.» Fuori dall'edificio un'esplosione scosse debolmente l'aria, spostando il fumo nella piazza con una folata. Lector si sentiva meglio, ma nella testa rodeva un'idea piccola, sottile, eppure fastidiosa – un'idea cui non sapeva dare forma, ma che percepiva più come sensazione, come certezza.
«Cosa vuol dire che non è possibile attaccarla?» chiese Matias, fissando Josua. L'altro capitano stava ritto e in silenzio.
La comunicazione fluttuò leggermente, amplificando il breve sospiro dell'ammiraglio. «L'abbiamo colpita con torpedini e cannoni di tre navi. Non è successo niente. È protetta da qualche tipo di campo di forza, simile ai nostri scudi vacuum. I magos in servizio nella Attis ci stanno perdendo la testa, mentre noi ce la stavamo perdendo letteralmente, quando quella cosa ha iniziato a rispondere al fuoco.»
«Come è possibile che questi alieni primitivi abbiano una tecnologia del genere?» fece Matias, alzando la voce.
«Come posso saperlo, capitano? Basti sapere che i Magos mi assicurano che, anche riconquistando le batterie, non riusciremmo ad eliminare quest'abominio navale che mi vergogno a chiamare incrociatore.»
«Cosa possiamo fare?» chiese Josua, con freddezza.
«I Magos» fece l'ammiraglio, mentre la comunicazione si indeboliva, «sostengono che ci sia una sorta di collegamento energetico tra la nave e un punto sulla superficie del pianeta. Non ne sono sicuri, ma è possibile che la nave sia protetta da terra. Questo spiegherebbe perché non ci ha seguito quando ci siamo allontanati dopo lo scontro. Ma...» fece quando la voce venne spezzata da uno sbalzo nella trasmissione, «non siamo sicuri...non avvertito...Alartel...prendere...batterie...»
«Ammiraglio» disse Matias, «è necessario che il Maestro sappia...»
«Distruggere...campo...forza» gracchiò ancora la voce, prima di cedere il post ad un lungo e indistinto fischio statico. L'ufficiale dell'FDP, pallido in volto, fece chiudere la conversazione. Matias e Josua si guardarono a lungo. Lector avvertì nelle orecchie un'eco del fischio statico, che in qualche modo gli fece percepire più concretamente l'idea che gli si era infilata in testa.
«È assurdo che gli orki possano proteggere così una nave. La loro tecnologia non glielo permette» fece Matias, confuso.
«Non possiamo negare l'evidenza» fece Hibris, spostando il peso su una delle due colossali zampe meccaniche, «la cosa è stata già dimostrata ai cancelli. Una cosa è essere bersagliati da quei ridicoli e rozzi razzi xeno; se mi avesse colpito, non avrebbe neanche scalfito questo guscio da prescelto dell'Imperatore» disse, battendosi piano il grande maglio corazzato sulle piastre frontali, «ma se si fosse trattato di uno di quei fulmini azzurri, allora mi avrebbe mandato direttamente a vedere il Trono, con rispetto parlando.»
I sergenti iniziarono a parlare tra di loro, mentre Matias avvicinava Hibris con un'espressione seria. Lector aveva la testa piena dell'idea e del fischio – la percezione che tutti quei fattori fossero collegati tra di loro, in modo imperscrutabile ma chiaramente legato ad un'unica origine. Imbracciando il fucile requiem si avvicinò di nuovo alla finestra: vide la piazza in fiamme, le macerie, il fumo ormai diradato e un brulicare oscuro nelle aperture delle rovine più lontane. Ci mise un istante a individuare i movimenti scattanti e violenti delle ombre che strisciavano tra i roghi; decine e decine di orki si muovevano nella loro direzione. Un proiettile fischiò nell'aria e si schiantò nella pietra accanto alla bifora.
«Xeno» urlò Lector, puntando il fucile e sparando un raffica verso gli alieni.
Il resto degli astartes si mosse come un sol uomo, raggiungendo le finestre. Il resto delle due compagnie, sparse nel grande complesso di rovine, iniziava già a fare fuoco per respingere il nemico.
«Fuoco con le armi pesanti» disse Josua nel vox, «non fateli avvicinare.»
Hibris fece pochi passi verso una finestra, la allargò con un grosso colpo di maglio e iniziò a sparare col cannone d'assalto. Matias, che era ancora accanto a lui, tirava raffiche brevi e precise con il proprio fucile requiem.
«Matias» iniziò a dire Josua, ma la sua voce, e quella dei compagnie, e gli spari e le urla vennero coperte da un fischio – prima leggero, poi crescente, sempre più grande, sempre più acuto. Josua si trovò a chinarsi istintivamente, e quasi non si stupì quando l'intero edificio venne scosso da un boato immenso, sotto i colpi d'artiglieria che ne sfracellavano i muri e i pilastri. Sentì un peso incredibile premergli addosso, schiacciarlo, ed ebbe l'impressione che anche l'armatura stesse per cedere; poi però riuscì a muoversi di lato, gli ochi pieni di polvere e fuliggine, e a strisciare fuori da sotto il lastrone che gli era caduto addosso. Gli altri astartes attorno cercavano di divincolarsi dalla stretta delle macerie, e solo Hibris restava in piedi, la corazza ingombra di detriti, sparando verso l'orda verde sempre più vicina – che adesso strillava, urlava agitando le zpakka e sparando all'impazzata.
Josua fu in piedi in un istante; con un solo gesto estrasse la spada a catena e puntò la pistola, sparando ad un orko e facendogli saltare via un braccio; poi caricò, da solo, mentre il resto delle due compagnie non colpite dal bombardamento sparava con foga sullo xeno. Una folata di polvere gli oscurò la vista, e fu soltanto con qualche istante di ritardo che realizzò che la cosa che aveva investito, e che si stava trascinando nella corsa, era un orko vivo e urlante.

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