Spingendo l'orko davanti a sé, Josua sfondò il fragile muro di mattoni di un edificio laterale. Sentì le ossa dello xeno spaccarsi e le sue urla selvagge echeggiare nella stanza mentre – travolto dal proprio stesso impeto – ruzzolava sul corpo dell'alieno e cadeva sul pavimento. Il frastuono della battaglia parve allontanarsi per un istante; Josua rotolò, si levò di dosso il cadavere e si mise istintivamente in ascolto. Qualcuno, dall'altra parte dell'edificio, stava gridando. Una voce umana, una donna. Si alzò di scatto brandendo spada a catena e pistola requiem; i suoi uomini erano rimasti nella piazzola a combattere, e lui doveva coordinarne le azioni. I civili andavano messi in salvo, ma era più importante sconfiggere il nemico. Rimase ancora per qualche secondo lì, indeciso; nella testa strisciava qualcosa che gli aveva detto il Maestro, un rimprovero o un ammonimento; lo sconforto, la debolezza gli attraversarono le membra. Poi la donna urlò di nuovo, e lui si lanciò nel corridoio alto e stretto da cui provenivano le stride.
Corse, evitò un cumulo di calcinacci e sfondò una porta con una spallata, portando via una parte abbondante dello stipite; sbucò in un grande salone mezzo crollato, dove il fragore degli spari e degli scontri tornava ad essere intenso. In un angolo – le pareti franate, aperte su un grande spiazzo dove stava calando un gran fuoco di artiglieria – una donna strisciava per terra, tenendosi al petto un fagotto scuro. Su di lei stava uno xeno minore, una kakkola armata di un gran coltellaccio, che si agitava ed urlava come una bestia.
Josua alzò il braccio e tese la pistola, ma l'alieno neanche se ne accorse e fece in tempo a gettarsi sulla donna con l'arma. L'astartes vide il metallo calare, il sangue rosso – sangue umano, quello della madre e del bambino che si teneva in grembo – schizzare in faccia all'alieno. La donna gridò ancora, per l'ultima volta, e quello strillo sembrò sospendere il frastuono della guerra tutt'attorno. La mano di Josua tremò, e una sensazione nuova, orrenda, si espanse d'un tratto nella mente e nel petto. Sarebbe bastato un istante in più, un secondo di anticipo per salvarli entrambi. Sarebbe bastato non tentennare nell'indecisione, come aveva fatto poco prima, come faceva sempre. Era un capitano della terza compagnia delle Scure Ceneri, ma tra gli onori e le glorie del sangue e del ferro restava un vigliacco, incapace di decidere.
Josua strinse i denti. Odiava quella sensazione. Odiava sé stesso, e doveva fare qualcosa. Vendicare la donna. Distruggere lo xeno. Senza sparare, scattò di corsa verso l'alieno; quello si voltò, le zanne ancora imbrattate di sangue rosso, appena in tempo per avere il cranio sfondato da un calcio dell'astartes. Josua schiacciò ciò che restava della testa della kakkola sul pavimento, il volto teso nello spasimo della rabbia e della furia. Guardò fuori nello spiazzo; decine di orki correvano tra i crateri lasciati dal fuoco di artiglieria appena conclusosi, forse per andare proprio ad attaccare i suoi uomini nel cortile poco distante. Una voce nel vox del casco gracchiò per dirgli qualcosa, chiamandolo; ma la vergogna gli oscurava ancora il cuore, e senza ascoltare fece rombare il motore della spada correndo fuori, lanciandosi verso gli orki.
Il primo non si accorse neanche della macchia grigiastra che gli si abbatteva addosso; Josua gli troncò la testa con un fendente secco della lama. Quello subito dopo fece in tempo a guardarlo, stupito, prima di avere il cranio frantumato da un proiettile di pistola requiem. Gli altri orki si voltarono, alzarono le armi e urlarono; ma Josua vi si buttò in mezzo, roteando la spada e gridando più di loro. Tagliò il braccio ad uno, una gamba ad un altro; un orko armato di zpakka calò un fendente che lui riuscì a parare a malapena con la pistola, prima di poggiargli la spada sull'addome e squarciargliela violentemente. L'alieno gridò di dolore, ma non riuscì a coprire le strilla dei suoi compagni che si accalcavano attorno al capitano; gli spararono contro, e i colpi che non rimbalzarono sull'armature finirono col ferire gli altri alieni che si azzuffavano per raggiungere prima l'astartes.
Digrignando i denti, Josua ne freddò due con la pistola, parò il colpo di zpakka a catena di un altro alieno e lo respinse con una spallata. Dal fumo di un cratere giunse urlando un altro alieno più grosso, che brandendo un'ascia a due mani calò un colpo di tale violenza che Josua – schivando con una piroetta – sentì il terreno tremare. Finì in ginocchio tra due orki: allungando le braccia, ad uno sparò direttamente in testa, e all'altro ficcò la spada stridente nelle budella. Estrasse appena in tempo prima che il kapo orko, alzata di nuovo l'ascia, si gettasse urlante su di lui, con gli occhi d'un rosso sanguigno e la bocca spalancata su un pozzo di zanne e grida bestiali.
Questa volta Josua fu costretto a parare; il colpo violentissimo calò sulla spada, e il capitano gridò quando sentì le proprie braccia cedere sotto la forza colossale della bestia, mentre la lama dell'ascia scendeva quasi a sfiorargli la testa. Ma Josua resistette, girò la spada mettendo i denti a contatto con il grande zpakka dell'orko e azionò il motore: la catena fece schizzare via l'arma dell'alieno, sbilanciandolo, e Josua un istante in più del necessario per poggiargli la pistola in mezzo agli occhi e farglieli saltare con un lampo.
L'alieno, nonostante gli mancasse la parte superiore del cranio, urlò e agitò le braccia artigliate all'impazzata; prima che le convulsioni finissero e il cadavere crollasse finalmente al suolo, Josua si era rialzato e aveva decapitato un altro orko che gli si era gettato contro. Il vox continuava a trasmettere, e il capitano riconobbe la voce del sergente chiamarlo, chiedendogli dove fosse. Ma come poteva tornare dai suoi uomini dopo quello che aveva fatto – anzi, che non aveva fatto?
Parò un altro colpo e fracassò la faccia di un orko con il calcio della pistola. Sparò ad un altro, azzoppandolo, e vedendolo calpestato dai compagni che gli camminava sopra pur di raggiungere l'astartes. Si trovava ormai al centro dello spiazzo, con xeno che accorrevano da ogni parte; avevano rinunciato a sparargli, preferendo provare direttamente le proprie zpakka su di lui.
Uccise altri due alieni con la pistola, e quando puntò verso un terzo il grilletto scattò senza sparare; era scarica. Con la rabbia a squassargli il cuore e la mente, l'astartes lanciò con tutta la forza l'arma verso un orko, colpendolo in testa e fratturandogliela. Presa la spada a due mani, parò altri due colpi e ne restituì tre. Uccise quattro nemici, e ne arrivarono sei. Venne colpito tra lo spallaccio e il collo, respinse l'avversario e tagliò via il braccio che l'aveva ferito. Le strida degli orki rimbombavano ovunque, sommergendolo. Incassato un altro colpo sul collo, Josua scacciò gli alieni con una spallata, e li tenne a bada roteando la spada attorno. Avrebbe dovuto chiamare aiuto al vox, ma i suoi uomini erano già sotto torchio prima che lui si allontanasse come una recluta qualsiasi. Una recluta vigliacca, incapace di decidere. Sarebbe morto lì? Venire ucciso gloriosamente avrebbe restituito alla vita quella madre?
Un orko gridò ferocemente e saltò sul corpo d'un compagno caduto per attaccare il capitano. Lui si voltò, schivò e quando l'alieno fu stramazzato al suolo lo impalò a terra con la spada. Il terreno sembrò tremare; poi successe di nuovo, e di nuovo. Josua guardò oltre i crateri, e dal fumo oleoso delle macchine, dei cadaveri e delle strutture bruciate emerse una macchina sferragliante e vibrante, un camminatore degli orki armato di due enormi seghe circolari arrugginite e storte. Gli xeno urlarono vedendolo, fermandosi e iniziando a sparare in aria ridendo. La macchina camminava malferma eppure fin troppo spedita, schiacciando il fango e vomitando una nebbia bluastra in cielo da due grandi marmitte attaccate sul retro; sulla parte frontale, la rozza caricatura di una faccia orkesca ospitava i sensori ottici che la bestia all'interno usava per osservare Josua, analizzarlo, e tenerlo di mira prima di caricarlo s farlo a pezzi. Le seghe circolari ronzavano, lanciando scintille e pezzi di ruggine attorno. L'orko d'acciaio caricava, strillando da un altoparlante ficcato sulla cima. L'astartes strinse i denti e impugnò la spada. Il vox cianciava qualcosa. La madre era morta, il figlio era stato ucciso. Lui stava per morire. Il motore della spada vibrava, vibrava.
Il rombo divenne alto, immenso, inconcepibile. La macchina allungò le sua gambe metalliche storte, alzando uno dei braccia armate; ma il rombo era inconcepibile, e la investì ad una delle giunture, nella forma di gragnola di proiettili fittissima che tranciò via l'attaccatura del braccio meccanico dalla macchina.
Josua rimase, smarrito. Cos'era quel suono? Spostò appena lo sguardo alla sua destra, e vide la terra squassarsi sotto il passo di un enorme piede metallico. Gli orki si zittirono, terrorizzati. Accanto a Josua, un enorme cavaliere imperiale si scosse di dosso le ultime macerie dell'edificio che aveva appena attraversato, distruggendolo; le due immense spade catena rombavano sinistramente, mentre i due mitragliatori requiem che vi erano attaccati – uno per braccio – fumavano piano dalle canne. La testa del cavaliere – un elmo mezzo spaccato, che lasciava vedere una miriade di tubi e cavi pendenti come tentacoli o denti – si mosse per inquadrare l'orko d'acciaio. Poi il colosso tese le due spade, sparando un'altra raffica concentrata di proiettili proprio all'attaccatura della gamba destra del camminatore. La macchina orkesca resistette, mentre i colpi rimbalzavano ovunque ferendo o uccidendo gli xeno che si davano alla fuga; poi, gracchiando in modo osceno dall'altoparlante, il camminatore alzò la sega circolare e si lanciò contro il cavaliere.
Josua retrocedette, meravigliato; il cavaliere si fece innanzi, aspettò, e mentre l'orko d'acciaio lo raggiungeva in corsa alzò il piede e lo sporse contro lo xeno. La macchina aliena si schiantò con la violenza del proprio stesso impeto contro l'immenso arto del titano; al cavaliere non restò che spingere un po' in avanti e infine schiacciare l'avversario, facendolo stridere come una lattina accartocciata. Dopo un istante, la macchina esplose, lanciando fiammate e fumo tutt'attorno. Il grande macchinario imperiale restò fermo. Gli xeno rimanenti, osservata la scena, scapparono di corsa da dove erano venuti.
Josua guardava senza dire una parola. La voce nel vox era più chiara, ora: il sergente richiedeva supporto immediato e il permesso di contattare l'artiglieria. Il cavaliere girò la testa sfigurata verso il capitano, illuminando l'unico occhio robotico che possedeva.
«Il tuo nome, astartes?» chiese con voce viva e allegra, attraverso i propri altoparlanti.
«Capitano Josua della terza compagnia delle Scure Ceneri» mormorò lui, ancora con la voce degli altri marine nelle orecchie, «i miei uomini hanno bisogno di aiuto» aggiunse poi meccanicamente, senza riflettere.
Il cavaliere ridacchiò. «Bene» rispose, «digli che è arrivata la cavalleria.»
