Capitolo 17

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12 - Novembre - 2015

Mi svegliai in una stazione di polizia, molto probabilmente ero svenuto per lo shock dopo gli eventi della sera prima. Ero ancora troppo instabile e tremavo al solo pensiero di quella scena così raccapricciante e spietata. Non potevo credere che fosse davvero successo, non sapevo più come reagire.

Mentre continuavo a domandarmi se tutto quello fosse vero, una donna mi chiamò in appello: 

«Joseph Miller?»

Non riuscì ad alzare lo sguardo. I miei occhi ormai spenti, fissi al suolo e non accennavano movimenti.

«Sono la Dottoressa Taylor Wilson e sono qui per parlare della tua situazione. Ti andrebbe di parlarne in un posto più tranquillo?» disse lei mostrandomi la strada con la mano.

Non acconsentì ma la seguì lo stesso. Mi aveva portato in una stanza completamente bianca con solo un tavolo e due sedie al centro. Sembrava una stanza degli interrogatori ma non mi sembrava che nello stato in cui fossi ne avessi bisogno.

In quel momento tutto si fece silenzioso. Ci sedemmo uno di fronte all'altro e, a quel punto, la donna che mi aveva portato li dentro cominciò a parlarmi. In un primo momento non avevo idea di che stesse dicendo, ero troppo turbato. Solo dopo un paio di minuti cominciai a  prestare un po' d'attenzione e a comprendere il discorso che era in atto in quel momento. 

«E' tutto chiaro signor Miller? Essendo ancora minorenne e non avendo alcun famigliare nelle vicinanze ci siamo presi la briga di contattare i suoi zii paterni che hanno accettato di prendersi cura di lei fino alla maggiore età. Partirà per l'Europa tra una settimana, il tempo di sistemare delle piccole faccende» concluse lei.

Ero stato giocato. Era quello il mio destino? Perdere così tanto in così poco tempo? Dimenticare tutto quello che era successo e andare via come se nulla fosse? Il mio respiro si fece più pesante e il mio corpo cominciò a tremare più di prima. Non potevo, anzi, non volevo accettare quella situazione.

La donna che ancora si trovava in stanza con me si accorse che la mia reazione al suo discorso non fu delle migliori. A quel punto si avvicinò a me posando una mano sulla mia spalla e chiedendomi quale fosse il mio stato d'animo:

«Signor Miller, sta' bene?»

A quella domanda la mia mente collassò. Alzai il capo e la guardai con gli occhi spalancati e uno sguardo ormai perso, quasi assente:

«Stare bene?...Che razza di domanda è?» dissi io alzandomi e avvicinandomi a lei. «Come può domandarmi una cosa simile? La mia famiglia non ce più, la mia defunta sorella mi perseguita e...»

Non riuscivo a stare zitto. Ormai qualunque cosa dicessi non aveva più alcun valore.

«... e l'ultimo sentimento che ho provato verso mio padre è stato un profondo senso disprezzo, mentre l'unica persona che mi abbia fatto stare bene dopo tanto tempo è in coma e molto probabilmente non si sveglierà mai più!» continuai io afferrando la donna per le spalle. «E' ovvio che sto' bene, no? Sto' BENISSIMO!» conclusi io stringendole le spalle e sorridendo.

La donna mi guardò per qualche istante negli occhi, prima di spintonarmi ed uscire in tutta fretta dalla stanza. Io rimasi solo. Rimasi in piedi, a fissare la parete di quella candida stanza con quel malinconico e depravato sorriso.

15 - Novembre - 2015

Dopo la faccenda alla stazione di polizia la Dr.ssa Wilson, notando il grave Choc che avevo subito a causa della perdita dei miei genitori, riuscì a farsi dare un permesso speciale per farmi vivere, ormai per quell'ultima settimana, a casa mia.

Ovviamente ero sorvegliato 24 ore su 24 e quasi tutte le stanze erano state sigillate, soprattutto la stanza dei miei genitori. Non mi turbava per nulla stare in quella casa, al contrario, mi sentivo più tranquillo. Anche se per pochi anni ho vissuto in quella casa, con la mia famiglia avevo creato un paio di ricordi che non mi sarebbe dispiaciuto conservare.

Erano passate un paio d'ore, poiché senza accorgermene mi appisolai in soggiorno, rimuginando su tutto quello successo fin'ora. Era ormai notte fonde, molte probabilmente era già passata la mezzanotte e, in quell'istante sentì come un senso di déjà-vu. Cercai di capire per quale motivo avessi avuto quella sensazione ma non ci riuscì in un primo momento. Non riuscendo a capire quella sensazione di "già visto" salì al piano di sopra e mi diressi nella mia stanza, molto probabilmente non avrei dormito, ma meglio che stare il soggiorno a fissare il nulla.

Una volta arrivato al piano di sopra ed aver aperto la porta mi accorsi solo dopo di essere entrato nella stanza sbagliata. Ero entrato nella stanza di Emily.

Mi sentì stranito. La sensazione di  déjà-vu si era fatta più forte e poi sparita nel nulla tutto d'un tratto. Fu in quel momento che capì. La prima volta che entrai nella stanza di Emily era tutto molto simile. 

Oramai mi trovavo li. Ero fermo di fronte la stanza di Emily e la fissavo come se fossero passati anni dall'ultima volta che la vidi. Entrai chiudendo la porta alle mie spalle e mi sedetti sul suo letto. Non ero per nulla angosciato, ma stranamente ero un po' triste. Quella sarebbe stata l'ultima volta che sarei potuto entrare in quella stanza, tanto valeva restarci ancora un po'.

Poggiai la mano sul letto e accidentalmente urtai qualcosa. Era il diario di Emily. Ricordo molto bene quel momento e posso dire con tutta sicurezza che il diario prima non era li. Non mi feci domande, ormai era tutto fin troppo surreale. Mi c'ero fatto un'abitudine? No, più che abitudine ormai ero rassegnato all'evidenza. 

Eccolo li. Era esattamente tra le mie mani, il diario che mesi prima mi aveva terrorizzato a morte. Il diario che mi aveva dato la possibilità di parlare ancora una volta con la mia Emily. Il diario che molto probabilmente aveva dato inizio alla decadenza della mia sanità mentale.

Ci pensai giusto un po' e decisi. Era giunto il momento degli addii. Così scelsi di salutare nuovamente la mia sorellina per sempre. Presi una penna è scrissi:

«Ehi Emily...Questo è nuovamente un addio»


Doctor Corpse - Le originiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora