Capitolo 20

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In tutto l'ospedale non si sentiva più nulla. C'era solo un cupo silenzio accompagnato da qualche debole venticello. Io ero ancora nell'ufficio di mio padre, avevo appena finito la mia prima operazione che, modestamente, era stata un gran successo.

Per tutta l'operazione aveva avuto una grande paura, non mi era mai piaciuto quel sottile "filo" che collegava la vita e la morte. Un piccolo errore e potevi "staccarlo" accidentalmente. Ma non era quello il caso. Quel giorno, quella mia prima operazione, riuscì a sostituire la mia paura con la soddisfazione. Ero fiero del mio lavoro, anche il Dr. Turner sembrava esserne contento.

Finalmente dopo molti anni forse aveva ritrovato la serenità ed aveva capito il suo errore. Allora giaceva al suole, con un espressione innaturale, quasi mostruosa. Per tutta la durata dell'intervento cercai di non staccare quel sottile filo, cercando dunque di mantenerlo in vita. Doveva capire cosa si provasse a ricevere un tale dolore. 

Prima di tutto staccai i tendini di braccia e gambe, ovviamente all'inizio avendo un enorme paura feci un piccolo errore tagliando così una delle tre vene principali del braccio. Cominciò a perdere molto sangue e ad imbrattarmi completamente. Tutto quel sangue non aiutava la mia situazione, tanto che dal forte choc il Dr. Turner riprese temporaneamente i sensi. Quell'espressione di paura e orrore mi calmarono completamente. Stavo facendo la cosa più giusto e in quanto medico era mio dovere aiutarlo.

Fu li che cominciò l'operazione vera e propria. Col bisturi tracciai perfettamente una linea che si estendeva dal torace allo stomaco, creando così un'apertura. Dopo di che  continuai esportando tutti gli organi lasciando trasparire solo la gabbia toracica, dove si trovava la fonte del suo male. A quel punto l'operazione era conclusa. Feci attenzione a non danneggiare nulla, prendendo in mano solo il suo cuore. Il Dr. Turner, impossibilitato perfino a parlare, mi guardava rassegnato, sicuro ormai del destino che lo attendeva. Ormai c'era solo una cosa da dire in quella situazione:

«L'operazione è stata un successo» dissi stritolando in una morsa il suo cuore.

Era la fine per lui. Prima che al cervello smettesse di arrivare ossigeno rimisi tutti i suoi organi al loro posto e ricuci il tutto. Quello che era rimasto al suolo ormai era solo un cadavere circondato da una pozza di sangue. Avevo fatto il mio dovere combattendo perfino la mia paura della morte.

Rimasi ancora un po' in ufficio, dopo di che uscì, lasciando li solo un cadavere. Scesi al terzo piano e mi incamminai nel vasto corridoio di quel piano. Comincia a visitare ogni singolo paziente, controllando le loro cartelle cliniche. Molti di loro assecondavano la mia idea di "tumore maligno", avevo fatto del male ai loro simili o causato gravi disastri. Non avevo idea di chi fossero ma il loro volto diceva più del dovuto, così cercai di curare il loro male. Appena ebbi finito con alcuni di loro entrai nella stanza dove mi sarei dovuto recare prima di qualunque altra: la stanza di Samantha.

Come sempre vederla in quelle condizioni era un dolore insopportabile. Entrai e chiusi porte e le finestre e mi sedetti accanto a lei, rimanendoci per parecchio tempo. Mi tolsi la mascherina che tenevo addosso dalla mia prima operazione. Avrei desiderato che in quel momento si svegliasse e mi guardasse con odio per quello che stavo per fare. Ma prima di fare ciò, volevo raccontarle del terribile passato che mi aveva perseguitato fino ad allora. Avrei voluto che almeno lei lo sapesse.

Le strinsi la mano e cominciai a raccontarle l'accaduto:

«Da quanto tempo Samantha. Mi sei mancata davvero molto» cominciai io.

«Vedi...c'è una cosa che ho sempre voluto raccontarti. Ricordi il nostro primo incontro? Mi chiedesti perché non parlassi con nessuno. Beh...il fatto è che ho avuto un enorme trauma quando ero ancora un ragazzino. E' successo poco più di tre anni fa. Era una sera come tante e come quasi ogni volta mio padre era stato invitato ad uno dei suoi soliti convegni, al quale andava anche mia madre. Io e mia sorella eravamo troppo piccoli per parteciparvi e per tanto rimanevamo a casa con una babysitter. Quella sera mio padre era in ritardo per uno dei convegni più importanti al quale avesse mai partecipato e la babysitter aveva avuto un contrattempo, pertanto non sarebbe arrivata. Come ogni ragazzo in fase di crescita volevo sentirmi più autoritario e maturo così convinsi i miei a lasciare me e mia sorella da soli fino al suo arrivo. Non ci fu errore più grande che potessi commettere. Prima di uscire mi avvisarono di innumerevoli cose. Io li ascoltai e passai la serata con la mia sorellina. La feci giocare fino allo sfinimento e verso le dieci la misi a letto. Era molto più tardi del suo solito, ma una volta tanto non mi sembrava male. Quando mi accertai che si fosse addormentata, scesi di sotto e mi incamminai in soggiorno. Per qualche ragione faceva più freddo del solito e non riuscivo a spiegarmi il perché. Quando andai ad accertarmi della temperatura sul termostato, notai che la finestra della porta sul resto era spalancata. In un primo momento mi preoccupai, ma pensai che non ce ne fosse motivo. Credetti di essermi dimenticato di chiuderla e non ci pensai più di tanto. Mezz'ora dopo però cominciai a sentire degli starni rumori al piano di sopra. Io mi ero quasi appisolato ma riusci a svegliarmi del tutto per accertarmi che andasse tutto bene. Man mano che salivo le scale per qualche ragione il mio cuore batteva sempre più forte. Cominciai a preoccuparmi e a correre verso la stanza di Emily. Ero terrorizzato. Quando però arrivai di fronte alla sua stanza mi arrestai di colpo. La sua porta era socchiusa. Aprì la porta e cominciai a piangere. Ciò che vidi mi scosse dal più profondo antro del mio cuore. La mia sorellina, la dolce bambina con cui avevo passato una vita...ormai era diventata irriconoscibile. I suoi occhi erano diventati delle orbite vuote straripanti di sangue e sul suo piccolo petto si intravedeva un enorme buco. Io caddi in ginocchio, piangendo ad occhi spalancati silenziosamente. Solo dopo qualche secondo notai che ai piedi del suo letto si trovava un'enorme figura. Quell'enorme figura, ricoperta di sangue, impugnava un sottile coltello. Quando mi vide, cominciò ad avvicinarsi a me. Ero troppo scosso per muovermi, per me poteva anche uccidermi in quell'istante, ma non lo fece. Si inginocchio d'innanzi a me e mi guardò negli occhi, sussurrandomi che un giorno avrei capito cosa lui aveva fatto. A quelle parole non riusci più a distinguere se fosse un incubo o la realtà. Dopo di che svenni. Mi svegliai molto dopo, tra le braccia di mia madre, in lacrime, e circondato da macchine della polizia e paramedici. Tra quei paramedici si trovava anche mio padre, in lacrime anche lui. La polizia era stata del tutto inutile e mio padre, per salvaguardare la sua famiglia lasciò la città alle spalle. Mesi dopo quell'incidenti ci trasferimmo.» 

Le avevo raccontato tutto nei minimi dettagli e finalmente potevo dirle addio con serenità. Staccai ogni apparecchiatura al quale Samantha era collegata. Avrebbe sofferto un po', ma finalmente avrei dato una fine a quella lunga ed irreversibile agonia. Proprio quando al suo cervello l'ossigeno doveva ormai essersi esaurito lei aprì gli occhi, mi guardò e mi sorrise. Poco dopo morì. 

In quel momento Medison entrò e cominciò ad urlare. Io mi voltai, in lacrime e gli esclami:

«Sono il peggiore».



Doctor Corpse - Le originiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora