Capitolo 27

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Oggi si terrà la commemorazione della mia migliore amica. 

Vorrei potermi alzare per andare a scuola, non al cimitero, per vedere persone seppellire la mia amica e gettarle della terra sulla bara. 

È una fredda domenica mattina, un giorno ideale per un funerale. 

Mi alzo e guardo fuori dalla finestra; sotto i miei occhi c'è il vialetto di casa. 

Spero di vedere Nicole salutarmi con la mano, svegliandomi da questo incubo, ma di lei non c'è traccia, perché questa non è un incubo per me, ma la pura realtà dei fatti.

Riporto la mente alla realtà e cerco nell'armadio l'unico vestito nero che ho. 

Mentre cerco disperatamente un abito adatto alla situazione, trovo un lungo tubino nero semplice, adatto a un funerale, anche se brutto, se Nicole mi vedesse direbbe che sono ridicola e avrebbe ragione. 

Mi do una veloce occhiata allo specchio; sono davvero in pessime condizioni, le miei occhiaie formano un cerchio intorno agli occhi, accentuando il mio sguardo stanco e segnando il peso emotivo che porto. 

Sono il risultato visibile delle notti insonni, delle lacrime versate e del dolore che si riflette sulla mia pelle. 

Le occhiaie narrano la storia di giorni difficili e di una tristezza che ha lasciato il suo segno indelebile sul mio volto.

Mi ritrovo sola di fronte allo specchio, uno specchio che riflette il mio volto segnato dal dolore. Mentre mi pettino, le mie mani si muovono meccanicamente attraverso i capelli, ma il mio sguardo è perso in un vuoto profondo. 

Le lacrime scorrono silenziosamente lungo le mie guance, un flusso continuo che tradisce la tristezza che avvolge il mio cuore.

Il pettine scorre tra i miei capelli, ma la mia mente è altrove, intrappolata nei ricordi della mia migliore amica. 

Ogni ciocca pettinata sembra portare con sé un carico di ricordi, e io mi ritrovo a piangere. 

I singhiozzi interrompono il silenzio, un lamento soffocato che accompagna il suono dei capelli che vengono districati.

Il riflesso nello specchio mostra gli occhi gonfi di lacrime e la tristezza profonda che si riflette nelle mie iridi. 

Il mio volto è segnato da una malinconia intensa, mentre continuo a pettinarmi cerco forse un momento di distrazione o conforto in questo gesto quotidiano. 

In quel momento, il pettine diventa quasi un mezzo per cercare di radunare i frammenti di un'anima frantumata. 

Prendo un fazzoletto e con mano tremante asciugo delicatamente le lacrime dal mio viso. 

Decido di scendere in cucina, anche se so che lo stomaco è chiuso dall'angoscia. 

È un gesto quasi automatico, una routine che cerco di mantenere nonostante la sofferenza che avvolge ogni mio passo. 

Mi siedo a tavola, ma la fame è lontana, sostituita da un groviglio di emozioni che si annida nel mio stomaco.

Guardo le scarpe davanti a me e decido di metterle, un piccolo atto che mi dà la sensazione di fare qualcosa di normale. 

Mentre le allaccio, il pensiero di non riuscire a mangiare si fa più forte, ma sono determinata a scendere in cucina, anche solo per sedermi e cercare di far fronte a questa giornata difficile.

Scendo le scale con passo incerto, affrontando il corridoio che mi separa dalla cucina. Nonostante la consapevolezza che il cibo non troverà accoglienza nel mio stomaco, il desiderio di trovare qualche forma di normalità è più forte. 

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