Ventuno

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"Guardami negli occhi mentre lo fai, Eloise" ripetè per l'ennesima volta il Conte, la sua voce che attraversava la mia testa come una lama, i miei occhi che restavano incollati a terra.
Come potevo guardarlo? Potevo davvero gettare via ogni briciolo di dignità che mi era rimasta?

Ma soprattutto, me ne era davvero rimasta anche solo un po'?
Cercai di piantare le unghie nel pavimento per sostenermi, ma chiaramente era impossibile scavare a mani nude nel marmo.

Le ginocchia mi facevano così tanto male che dubitavo sarei riuscita a restare in piedi per più di cinque secondi, una volta che mi avesse permesso di alzarmi.
Trattenni le lacrime. Odiavo piangere e mi ero ripromessa di non farlo mai più.

Non davanti al Conte, non dopo l'ultima volta.
Ero in una posizione estremamente scomoda, tutto il corpo mi faceva male, faticavo a continuare a tenere la bocca semiaperta e mi sembrava di non riuscire più a respirare.

Ma ciò che più mi distruggeva era l'umiliazione di essere, nuovamente, nient'altro che un giocattolo nelle mani del Conte, nient'altro che una sua schiava.
Chiusi gli occhi per un istante, prima di sollevarli verso il suo viso, cercando di nascondere il dolore e la vergogna. Dovevo arrivare fino in fondo, era l'unico modo che avevo di uscire di lì.

Oh, se solo fossi rimasta a dormire.

     •••

Alcune ore prima.

Erano passate due settimane.
Due settimane che non vedevo il Conte, che non ne sentivo parlare, due settimane di vuoto totale.

Persino le cose da fare sembravano diminuire rapidamente mano a mano che passavano i giorni.
Ero stata sollevata dal mio incarico principale, ovvero tenere in ordine la libreria. Avevo aiutato per qualche giorno nelle cucine, poi mi avevano spedito in lavanderia.

Anche da lì ero stata cacciata, sempre con gentilezza, un paio di giorni dopo.
Avevo provato a tornare alla libreria ma mi avevano già rimpiazzata, avevo deciso di provare nelle stalle ma, chiaramente non c'era bisogno di qualcuno come me. Avevo chiesto a chiunque ma sembrava che nessuno mi volesse tra i piedi.

Le altre cameriere mi evitavano, quando entravo nella mia stanza calava un silenzio imbarazzante e ogni mio tentativo di comunicare veniva interrotto in fretta, costringendomi al silenzio.

Non capivo cosa fosse successo. E la mia mente, per contrastare tutto quel silenzio girava ininterrottamente, spingendomi ad addormentarmi per sfinimento e dolore alla testa ogni sera a notte inoltrata.

Cosa sapevano?
Erano trapelate delle informazioni? Sapevano qualcosa su di me? Su di me e sul Conte?

Mi ero ormai resa conto che il Conte non trattava tutte le cameriere nello stesso modo. Che tutte le attenzioni, positive o negative che fossero, che mi aveva riservato, non le aveva dedicate anche a molte altre. Forse a qualcuna, anzi quasi sicuramente, almeno prima che io arrivassi al castello.

E se le altre avessero saputo ciò che mi faceva? Ciò che mi ero lasciata fare?

Potevano anche averlo saputo da qualcuno.
Ma che senso aveva il silenzio? L'indifferenza?

Anche se avessero saputo ogni cosa, non capivo perché sarebbe dovuto interessare a ciascuna di loro. E ai ragazzi delle stalle. E alle guardie del palazzo. A tutti, insomma.

Avevo fatto qualcosa di così sbagliato?

E quel muro di silenzio e impassibilità che mi circondava non era l'unica cosa a tenermi sveglia la notte, a far frullare i pensieri nella mia testa fino a farmi male.
Il Conte era sempre lì.
Un chiodo fisso nella mia mente. Lui e la sua minaccia.

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