Il regalo che non ti aspetti di ricevere arriva spacchettato

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Lo sguardo fisso sulle mani fredde, umide di sudore e strette l'una all'altra, annuisco greve alle parole di Tris.
«Che ore sono?», le domando, stringendomi nel giaccone.
«L'una e mezza- dentro hanno già smesso di suonare», risponde lei, quasi a voler giustificare il fatto che suo padre stia per venire a prenderci. «Se ne stanno andando tutti», aggiunge poi, guardandosi attorno.
Annuisco di nuovo, torturandomi le labbra coi denti.
Esistono due tipi di persone, in queste circostanze.
Ci sono quelle che arrivano ad una festa con una serie di aspettative che sperano di vedersi realizzare prima della fine della serata e che tornano a casa ampiamente soddisfatte- e poi c'è chi, come me, arriva con la sola speranza di fare gli auguri di Natale alla propria cotta e invece si ritrova puntualmente seduta su una panchina, tremando infreddolita per via di un vestito che non valeva la pena di mettere, col trucco sbavato dal pianto e un macigno a pesarle sul cuore.
Non solo le mie aspettative non si sono avverate, ma è persino andato tutto peggio di come avrei mai potuto temere che andasse.
«Dio...», sibilo a denti stretti, rabbrividendo nel giubbotto per via dell'aria resa fredda e pungente dalla neve.
Chino gli occhi sui miei stivaletti di pelle nera e prendo un profondo respiro.
Possibile? Davvero io mi devo sempre accontentare di questi finali da film horror? Perché per me non può esserci per una volta il lieto fine?
Una piccola speranza, un barlume di luce? Mi va bene anche l'illusione di esso, lo conserverò gelosamente durante ogni istante che trascorrerò a casa per le vancanze.
Mi nutrirò di esso con tutta la forza che mi rimane- ma chiedo solo uno sguardo, un sorriso che possa tranquillizzarmi.

Perché fondamentalmente è questo ciò di cui ho bisogno: un segno da parte sua che mi convinca del fatto che non mi vede come una ragazzina frivola e superficiale.
Ma per farlo, per evitarmi il dramma di quei sedici giorni che dovrò passare braccata dai se e dai chissà, devo essere io ad agire.
Per una volta, non devo rimanere passiva.
Devo imparare a correre ai ripari e a plasmare gli eventi futuri con le mie di mani. Potrò accettare di gran lunga che tutto vada a farsi benedire per colpa mia, ma non voglio più dover accettare che a causa di altri la mia vita collezioni fallimenti.
Ho solo sedici anni e temo che se non mi scrollo ora di dosso questa paralisi, questa incapacità di muovere le pedine sulla scacchiera, come ho fatto quel giorno in cui ho scritto quel famigerato bigliettino al professore- potrei rimanere incastrata nella corrente delle conseguenze e abituarmi a lasciarmi trasportare dallo scorrere degli eventi.
E io voglio agire.
Voglio nuotare contro corrente, ora.
«Tris, vado in bagno», esordisco, sull'onda dei miei pensieri e scatto in piedi prima che la mia determinazione e il coraggio si affievoliscano.
«Vuoi che ti accompagni?», mi domanda, guardando distrattamente il cellulare aperto su qualche social network.
«No, tranquilla- faccio veloce», fremo in risposta, avviandomi poi verso l'ingresso della palestra ormai quasi vuota.
Saluto qualche conoscente che sta uscendo, mentre mi faccio largo nella ressa a furia di gomitate.
«Joy!», esclama una voce maschile, afferrandomi dal braccio.
La riconosco subito e per un attimo il contatto delle sue dita sulla pelle del mio giaccone si tramuta in acido pronto ad infettarmi.
Alzo gli occhi sul suo volto e presso le labbra con rabbia, mordendomi la lingua per tenere a freno la quantità di insulti che spingono alla base del collo per uscire dalla mia bocca e prenderlo a schiaffi in nome delle lacrime che mi ha fatto versare.
«Joy, mi dispiace!», afferma lui, tirandomi di lato per lasciare sgombero il passaggio.
«Nessun altro dei nostri compagni si è permesso di farlo, Charles», replico duramente, affondando gli occhi nelle sue sclere. «Lo credo che ti dispiace!»
«Hai ragione, sono stato un idiota», annuisce lui, chinando lo sguardo. «Ma- mi dispiacerebbe sapere che ora mi detesterai a vita per via di uno stupido bacio».
Prendo un profondo respiro dal naso, valutando quelle parole in silenzio- ma quando alzo lo sguardo oltre le sue spalle, il respiro mi si incastra nel petto ed io non so più nemmeno cosa mi stia trattenendo ancora qui.
«Scusa, devo andare», riesco a dire solo questo mentre supero i ragazzi che stanno continuando a riversarsi fuori dal palazzetto.
Mi guardo attorno, alla spasmodica ricerca del professore.
L'ho appena visto muoversi qui dentro- ma non lo trovo già più.
E non so nemmeno cosa ho intenzione di dirgli, una volta che mi troverò al suo cospetto- ma ora come ora la priorità è di ritrovarmici.
Poi mi affiderò alla mia schiettezza.
Almeno su di lei posso sempre contare, ché di certo non ne sono sprovvista.
Spingo lo sguardo in ogni direzione, oltre le spalle delle decine e decine di studenti che stanno ancora affollando la palestra.
Alcuni professori si stanno intrattenendo con un gruppetto di ragazzi e ragazze del quinto anno, ma di lui nemmeno l'ombra.
Cerco di immaginare dove sia andato a cacciarsi, ma ora i miei pensieri stanno pericolosamente scivolando in acque torbide.
Le amiche di Sienna fanno parte del gruppo di studenti che sta chiacchierando coi docenti- e il fatto che io non riesca a vedere alcuna paillette brillare fra loro basta a colorare la mia fantasia di presentimenti ben poco rincuoranti.
Ora mi risulta ancora più urgente portare a termine quella missione suicida, ché preferisco vedere i miei timori farsi realtà davanti ai miei occhi, piuttosto che tornare indietro e consumarmi nel dubbio e nelle paranoie dettate dalla bruciante gelosia che nutro nei confronti di quei due.
Senza rendermi pienamente conto di ciò che sto facendo, dirigo quindi i miei passi verso le porte degli spogliatoi.
Il primo è chiuso a chiave.
Pessimo segno.
Getto un'occhiata alle grate sul fondo della parete e l'assenza di luce sembra rincuorarmi, per un attimo. Poi mi rendo conto che se si vogliono fare certe cose, porta chiusa a chiave e luci spente sono irrinunciabili.
Lascio la maniglia come se fosse incandescente e mi sento soffocare in quei pensieri e in quelle fantasie così maledettamente dure da accettare.
Perché devo farmi così male da sola?
Scivolo allora verso il secondo spogliatoio.
Anche questo è chiuso- così non mi resta che il bagno in comune.
Senza pensarci su molto, apro la porta e me la richiudo alle spalle.
Scivolo lenta verso i lavandini e mi guardo distrattamente allo specchio, giusto per valutare quanto tremendo sia il mio aspetto.
Poco male- pensavo peggio.
Tirando su dal naso mi passo le dita bagnate sotto gli occhi per correggere le sbavature del mascara, lasciandomi poi andare ad un respiro lungo e bruciante.
Mi sembra di aver passato le ultime due ore in apnea, i polmoni fanno male ad ogni respiro più profondo degli altri.
Mi lavo le mani sporche di nero sotto al getto d'acqua calda- e quasi non mi prende un mezzo infarto nel sentire il rumore dello sciacquone alle mie spalle.
C'è qualcuno oltre la porta del gabinetto.
Alzo piano gli occhi sullo specchio, pronta a scusarmi per la poca discrezione con cui sono entrata senza preoccuparmi che fosse occupato.
E quando la porta si apre- cado in uno stato catatonico e confusionario.
In uno scatto mi volto indietro.
«M-mi scusi, io non pensavo che-».
Mr. Perfezione sorride vago delle mie scuse balbettate, affiancandomi al lavandino per lavarsi le mani.
«Non c'è mai sapone in questi bagni», commenta, aggrottando le sopracciglia. «Dovreste farlo presente alla direttrice. È pur sempre un servizio che non vi viene concesso».
Io dentro sto vivendo la Terza e la Quarta Guerra Mondiale per il solo fatto che sto respirando con lui nel bagno più angusto della storia dei bagni- e lui mi parla di sapone e servizi scadenti a scuola?
«Mi ricorderò di farlo presente al prossimo consiglio di classe», replico, deglutendo un'ansia fredda.
«Brava», annuisce lui, serrando poi le labbra in una linea dura.
«Stai meglio?», mi domanda improvvisamente, la voce sfumata da un tono cupo e serio mi comunica che non sta facendo dello spirito.
È una domanda mirata quella che mi ha appena porto e ne ricevo conferma non appena alzo gli occhi sul suo viso, trovando i suoi a sondare attentamente la mia espressione.
Serro le labbra, in tutta risposta, volgendo altrove lo sguardo.
«Non mi sei sembrata molto entusiasta di quel bacio», aggiunge poco dopo, asciugandosi le mani sui pantaloni, dopo aver constatato che, oltre al sapone, la scuola è anche a corto di rotoloni di carta.
Alzo le spalle in risposta alle sue parole. «Non avrebbe dovuto».
«Mmm», annuisce lui, sorridendo comprensivo. «Si sa come sono i ragazzi alla tua età- vedono una bella ragazza che gli dedica un po' di attenzione e subito pensano che il gioco sia fatto», commenta, facendomi sgranare gli occhi al suo "bella ragazza", ché mi chiedo se sia davvero possibile che i suoi occhi mi vedano così.
«Sì, ma non è quello il problema»
«Ah no? Dovrebbe, però», si incupisce lui.
«Mi ferisce di più l'idea che ai suoi occhi io sia sembrata in qualche modo frivola».
Le mie parole sortiscono un effetto strano sul suo volto. Sembra sbigottito.
«Ai miei occhi?»
«Sì», confermo a capo chino. «Lo so, è stupido».
E la delusione nel constatare che lui manco ci ha pensato a vedere la questione da un punto di vista personale mi ritorna ora persino più stupida dell'averlo anche solo ritenuto possibile.
«Sì, è un po' stupido in effetti- però è carino»
«Cosa?»
«Che ti preoccupi a questi livelli di una cosa tanto futile», risponde prontamente, il volto disteso in un'espressione dolce e affabile.
«Ah», rispondo così, con una sillaba.
«Ora sarà meglio andare, eh?», sorride ancora e un po' di più, rialzandosi dal lavandino.
Annuisco prontamente e lui mi guarda divertito dal fatto che non ho ancora mosso un passo verso la porta.
«Dovresti- uscire prima tu. Ci sono ancora degli studenti di là, oltre ai professori- e questo posto evoca ancora ricordi», puntualizza, facendomi arrossire fino alla radice dei capelli.
«Sì- giusto», sussurro imbarazzata e così scivolo rapida verso la porta, ignorando le gambe fattesi di burro.
«Oh, e-», mi blocco, stringendo la maniglia nella mano. «Buon Natale, professore».
I miei occhi si alzano sul suo volto, trovandovi un'espressione morbida al posto del solito cipiglio cupo e indifferente.
Un lieve sbuffo dal naso accompagna il movimento rapido della testa, mentre la scuote. E il suo sguardo si abbassa su un punto all'altezza delle mie ginocchia.
Si avvicina, camminando lento- ma lo spazio qui è talmente ridotto che in tre passi è già davanti a me.
Arrivano le sue mani, per prime.
Si posano delicate sulle mie spalle e i miei occhi si sbarrano sull'ombra della sua camicia di seta rossa scura, sempre più scura mentre si sporge verso di me, allungando il viso verso il mio.
Le sue labbra si posano soffici sulla mia guancia sinistra, dove vi depositano un lievissimo bacio a labbra chiuse.
«Buon Natale a te, Joy», sussurra poi sulla mia pelle arrossata, prima di rialzarsi e lasciarmi attonita contro la porta.
Sbatto le palpebre per quell'istante di troppo che lo fa sogghignare lieve- e finalmente, recuperato un briciolo di lucidità, scivolo via gli occhi dai suoi, mi sposto rapida di lato per aprire la porta e torno in palestra.
Il cuore mi batte furioso nel petto.
La mente galleggia leggera in una bolla di sapone- quello che devo ricordarmi di far presente che manca nei bagni della palestra.
Gli occhi sbarrati nel vuoto, il respiro corto e irregolare e i piedi che si incamminano autonomamente verso l'uscita della palestra.
È successo davvero?
Il professor Edwards, Mr. Perfezione mi ha appena fatto dono del regalo di Natale più inatteso della mia intera vita.
Quello che non ti aspetti di ricevere e che nemmeno ti azzardi a chiedere, ché sai quanto sia impossibile per te ottenerlo.
E invece lui me l'ha appena donato senza che glielo chiedessi.
E l'ha fatto col sorriso sulle labbra.

Joy D. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora