Tu quoque, Brute?

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La gente di Pristina non si è rivelata troppo diversa da quella che ho ritrovato qui, a casa mia.
Guardavano con la stessa insistenza, commentavano sotto voce in una lingua diversa, ma nella sostanza volevano manifestare la stessa identica reazione al mio pancione: sgomento, contrarietà, disapprovazione. Qualcuno si è anche spinto oltre, sfumando il semplice disappunto in vero e proprio disgusto.
Qui a Bournemouth ho potuto cogliere le differenze solo dopo due settimane dal ritorno mio e di mamma. La gente porta dipinta in faccia la stessa riprovazione di fronte ad una ragazza di diciassette anni incinta, ma in maniera più sottile- quasi cauta direi.
Inizialmente credevo che non commentassero alcunché per una questione di soggezione e rispetto, visto che mamma è molto conosciuta, in città. Così ho cominciato a preoccuparmi di meno di ciò che pensava la gente e a uscire di più, ché di segregarmi in casa già al quinto mese di gravidanza, mi sembrava eccessivo.
Avrei finito col farci la muffa su quel divano.
A distanza di due settimane invece, la bella illusione di potermi considerare protetta dalla nomina di mia madre è svanita quando ho scorto ciò che doveva essere accaduto probabilmente anche ogni altra volta in cui mi sono girata di spalle.
Non si tratta affatto di rispetto- si tratta di viltà.
Loro non sono affatto diversi dagli estranei che ho incontrato a Pristina- l'unica differenza è che questi sono conoscenti, gente che ha visto mia madre crescere, prima di fare lo stesso con me.
Non possono permettersi le stesse reazioni a volto aperto di quella gente del tutto sconosciuta- che dopo avermi rovesciato addosso il proprio disappunto, non avrebbe dovuto condividere altro con me.
Le persone che incrocio qui sono le stesse che mi hanno sempre fermata per strada per chiedermi come stavo, come andava la scuola, come stava mia madre, dov'era e come si trovava in quel dato posto.
Tutte bugie.
Tutte fottute bugie, mi si incastrano una per una fra le scapole solo ora, mille coltellate arrivate dopo chissà quanti giorni, mesi, anni da quando sono state sferrate.
La stessa donna che è stata a suo tempo una delle migliori amiche di mia nonna non ci ha messo molto a sorridere a mia madre e poi a me, di fronte al reparto dei vestiti premaman, per poi farsi cogliere in flagrante mentre scuoteva il capo e bisbigliava qualcosa alla signora che la accompagnava.
Tu quoque, Brute, fili mi?
Credo l'abbia detta qualcuno come Giulio Cesare- o comunque di quel calibro.
Se è stato pugnalato lui alle spalle più di duemila anni fa e ancora se ne parla- io sono bella che fregata.
Però che delusione.
«Mamma, mi sa tanto che non è stata una buona idea», commento, infilando le mani nelle tasche del giaccone.
L'aria dei primi giorni di settembre è sempre la più prepotente a soffiare, quasi che si senta in dovere di dimostrare qualcosa ai mesi estivi appena giunti a termine.
Ma almeno mi posso infagottare un po' di più, con la sciarpa, il maglione e la giacca sopra.
«Sicura che non si vede?», le domando per l'ennesima volta, ché lei sostiene di no, eppure la gente che incrociamo finisce sempre per abbassare lo sguardo sul mio grembo. Gli occhi allora si sbarrano e la loro espressione muta di punto in bianco, mentre guardano alienati mia madre.
Come se non fossi in grado di rispondere da me, poi. Sono incinta, mica incapace di intendere e di volere. Ma c'è chi sostiene che le due cose si escludano a vicenda, specialmente se a rimanere incinta è una diciassettenne.
Scaccio quei pensieri sempre uguali e carichi di stizza, rilasciando il respiro tutto in una volta.
Mamma mi squadra brevemente, ora, scivolando gli occhi lungo tutto il mio corpo.
Sospira.
«Tesoro, non potevi pretendere di tenerla nascosta fino al giorno del parto».
Quindi si vede eccome.
Fantastico.
Adesso sono centinaia gli occhi che mi sento addosso; mi scavano la pelle, facendomi sentire vulnerabile. Braccata da quegli sguardi tutti uguali, mi viene persino voglia di scusarmi per essere qui per essere io e per essere in queste condizioni.

Scusatemi. Sarei dovuta rimanere a casa.

Harry's pov.

Mi guardo attorno, sempre più soddisfatto del mio lavoro.
Le pareti fresche di vernice mi hanno sempre infuso un piacevole senso di ordine, di precisione, di appartenenza.
Camminare fra i locali tirati a lucido, ben arredati e ariosi è davvero appagante, dopo quattro giorni trascorsi a imbiancare, verniciare, pulire e sistemare i mobili.
Ma la prossima volta mi converrà chiedere una mano a James o a William, almeno per l'ultima fase- c'è mancato poco che non rimanessi vittima di un incidente domestico sul funebre andante, schiacciato sotto al mobile del salotto e poi seppellito sotto ad un centinaio di libri.
Fortunatamente a questo giro sono sopravvissuto e ora, fatta eccezione per un leggero mal di schiena dovuto ai pesi che ho alzato e spostato da solo, posso dire di essere davvero fiero di me stesso e del risultato.
In un certo senso mi rendo anche conto che, dall'esterno, tutto questo affaccendarsi possa sembrare alquanto inutile e stupido, visto che non ho poi così troppi ospiti da portare in casa.
È un pensiero che un po' fa ridere persino me, visto che da averne due, di donne, sono arrivato a non averne nemmeno una, neanche una scopamica o qualcosa del genere.
Che poi- detta così uno potrebbe anche rispondermi alquanto sdegnato che me lo merito.
E- che dire?, avrebbe solo che ragione.
Chissà, magari in settimana inviterò Gemma, mio cognato e le bambine per mostrare almeno a loro la mia opera.
Sì, direi che si può fare.
Prima però mi conviene rispondere al telefono, o William continuerà a chiamare fino a domani mattina.
Mi chiede come sto, ma la sua voce sembra sbrigativa, come se fosse di fretta.
«Ho appena finito di sistemare il bagno- ho la schiena rotta e non vedo l'ora di buttarmi a letto»
«Fantastico», taglia corto lui, evidentemente non troppo interessato alle mie condizioni. «Ascolta, devi venire qui. Non fare domande e raggiungimi- sono al bar del centro commerciale»
«Will, davvero», sospiro in risposta. «Sono a pezzi- ho rimontato il lavandino da solo e quel coso pesa di maledetto-»
«Ti riposi stanotte. Ora vieni qui, tu- devi davvero venire qua all'istante»
«Ma si può sapere che succede?».
All'altro capo del telefono Will sospira esasperato, rinforzando la mia preoccupazione.
«Ti è successo qualcosa?», gli domando ancora, incollando il cellulare all'orecchio.
«No, non si tratta di me- si tratta di te», ribatte lui, la voce titubante di chi non vuole dare spiegazioni, ma vuole comunque convincerti ad ascoltarlo.
«Harry, ti spiegherò tutto appena arrivi qui. Ora però metti giù e raggiungimi».
Mi sembra davvero assurda come richiesta. Se si tratta di me perché non spiegarmi le cose per telefono al posto di farmi uscire?
Ma faccio comunque ciò che mi ha detto, anche perché non mi sembra di avere altre opzioni disponibili.
«Stai uscendo?»
«Sì- Will. Sto prendendo il giubbotto»
«Fa' veloce, ti aspetto all'ingresso sul parcheggio grande- e muoviti, Harry, mi raccomando», replica con voce fredda e sempre più autoritaria, prima di riagganciare e lasciarmi inebedito in mezzo al corridoio.
Scelgo una strada secondaria per raggiungere il centro commerciale, ché quella che faccio di solito è sicuramente congestionata dal traffico, vista l'ora di punta, e in capo a dieci minuti raggiungo il parcheggio grande.
Will mi viene incontro a passo spedito, fumando la sua sigaretta con aria nervosa. Non ha una bella cera.
«Ora mi spieghi cosa cazzo sta succedendo- e subito, anche», lo ammonisco, squadrandolo duramente in volto.
Sono davvero confuso dal suo atteggiamento insolito. Si guarda di continuo attorno, come se fosse braccato a distanza da uno stalker.
«Seguimi- ti spiego strada facendo», risponde lui, gettando la sigaretta a terra.
Non lo avrebbe mai fatto, in una qualsiasi altra circostanza.
Entrati nel centro commerciale, William cammina veloce davanti a me, vaneggiando di lavoro, di reparto surgelati e altro che non riesco più a cogliere in quel flusso di coscienza confuso e disorientante.
Mi fermo in mezzo all'ampio corridoio e aspetto che rallenti il passo- si deve dare una maledetta calmata.
«Vuoi fermarti un secondo e spiegarmi con calma che cazzo ti prende? Mi stai snervando, per dio-»
«Sono uscito dal lavoro- mezz'ora fa», scandisce parola per parola, moderando il tono di voce così che possa finalmente capirci qualcosa anche io. «Sono passato di qui per comprare un paio di cose e... l'ho vista»
«Visto chi, Will?».
Mi acciglio all'istante, rinforzando la presa degli occhi sul suo volto teso, a tratti angosciato.
William mi restituisce lo sguardo, ma lo fa per poco. Subito dopo riprende infatti a guardarsi intorno con aria sempre più inquieta.
«Will-», lo richiamo io, rimanendo immobile a pochi passi da lui.
«Non so come dirtelo-».
Quella frase è già sufficiente a farmi tremare le ginocchia, senza che mi sia fatto una vaga idea di cosa si celi dietro essa.
Eppure non suona bene, nelle mie orecchie.
Non suona bene per niente.
«A parole tue andrà benissimo».
Le sue labbra si pressano con forza, gli occhi sfuggono ai miei come se avessero terrore di qualcosa.
Infine prende un profondo respiro e si passa una mano sul coppino.
«Va bene, io... ho visto la ragazza. Joy-».
Il suo nome mi piove addosso come una secchiata d'acqua e ghiaccio. Mi infradicia dalla testa ai piedi.
Sto per girare i tacchi e andarmene via. Non voglio davvero crederci che mi abbia fatto correre come un pazzo a cento all'ora solo per venire qua e sentirmi dire che ha incontrato Joy nel reparto surgelati del supermercato.
«È assurdo-», sibilo in un soffio di voce, voltandomi per andare via.
«Harry, credimi, tu-»
«No, Will», ribatto io, alzando la mano con aria minacciosa. «Tu e James mi avete davvero rotto i coglioni- dovete smetterla di intromettervi a questo livello»
«Mi sono mai permesso prima d'ora?!», mi interrompe lui, la voce alzata di qualche tono. «Non ti ho chiamato solo perché ho visto Joy al supermercato-»
«E allora spiegati, invece di tirarla per le lunghe».
Di nuovo riapre la bocca, ma è evidente che proprio non riesce a darmi una risposta. Sembra abbia dimenticato come si fa.
«Devi vederlo coi tuoi occhi, Harry-»
«Non ci penso neanche morto», lo interrompo prontamente, sbuffando una risata nevrotica.
Rivederla?
Dopo il suo avermi volontariamente ignorato per tutti questi giorni?!
Sono due settimane che aspetto un suo messaggio, anche solo per avvisarmi che è tornata in Inghilterra.
Ora che so per certo che è qui, fissa- e chissà da quanti giorni- ho un valido motivo in più per non volerci avere a che fare.
No, non voglio vederla.
Neanche da lontano.
Neanche di sfuggita.
«La rivedrò in classe, al rientro»
«Ecco Harry, io- francamente non credo che la rivedrai molto presto sui banchi di scuola».
E questa considerazione come cazzo dovrei prenderla, ora?!
Cosa diavolo vuol dire quella frase?!
Ora mi sto davvero scocciando. Lui, il suo atteggiamento sibillino, le sue mezze risposte e la sua insistenza mi stanno davvero facendo perdere le staffe.
Faccio per parlare, ma i suoi occhi rompono il contatto coi miei per muoversi rapidi alle mie spalle. Il suo sguardo si svuota, la sua intera espressione è attraversata da un timore schietto e ansioso.
Non gli serve dirmi alcunché.
Senza che apra bocca, ho già ben chiaro chi ci sia alle mie spalle.
Volente o nolente, sembra che mi toccherà vederla.
Non ho vie di fuga- grazie alle premure del mio amico.
«Fanculo-»
«Harry, i-io», lo sento ansimare, mentre mi giro con estrema lentezza, gli occhi fissi sul pavimento.
Un profondo respiro mi dilata il petto e con altrettanta lentezza alzo lo sguardo- il profilo di Joy, in piedi con la madre davanti ad una delle casse del supermercato, ora mi riempie gli occhi.
È tutto quello che vedo, in un primo momento.
Poi, nei secondi successivi, dentro di me prende piede una vera e propria guerra, passo dal desiderio di andarmene a quello di raggiungerla per soffocarla fra le mie braccia.
Dal risentimento alla gioia- e dalla gioia crollo nello sconforto.
«Joy?», gemo affranto, gli occhi puntati su un gonfiore che, sul suo corpo- no, non va per niente bene.
Alzo gli occhi solo per assicurarmi che non mi abbia visto e di nuovo li riabbasso su quel pancione che le ha completamente snaturato la linea del corpo.
Sento le ginocchia piegarsi, potrei cadere a terra da un istante all'altro e non sono troppo sicuro che avrei poi la forza di rialzarmi.
«Non sapevo come dirtelo- ci sono rimasto di sasso anche io quando l'ho vista. Harry- Harry, dai, aspetta-».
Ma la sua voce è già una eco lontana, fa da sottofondo a tanti, troppi pensieri che preferisco non focalizzare ancora.
So solo che devo andarmene.
«Harry!», mi richiama lui, ma non gli do ascolto e al contrario affretto il passo in direzione dell'altro ingresso, pur di non passare loro davanti.
Spero di raggiungere la macchina prima che Joy e sua madre escano dal centro commerciale.
Non so come, ma dopo pochi secondi mi ritrovo seduto sul sedile, con gli occhi appiccicati al parabrezza e il respiro corto- è come se i miei stessi pensieri si fossero materializzati in mille mani, ora serrate al mio collo per strozzarmi.
William bussa al finestrino.
Scuoto il capo, senza neanche curarmi di ascoltarlo. Ha già fatto abbastanza.
Metto in moto con un gesto nervoso, le dita strette attorno alla chiave e il piede premuto a tavoletta sull'acceleratore.
Sgommo via, uscendo dal parcheggio con una manovra brusca e stridente.
Centodieci all'ora sulla strada sgombera, eppure i pensieri si muovono anche più veloci, mi superano in poco tempo, tirannici e dispotici nell'affondare di nuovo le loro dita adunche attorno al mio collo.

Arrivo a casa nella metà del tempo che mi è servito a raggiungere il centro commerciale- e quando mi ritrovo finalmente solo, in mezzo all'ampio salotto ritinteggiato, le forze mi abbandonano.
Crollo a terra, le ginocchia colpiscono con violenza il pavimento duro- ma io non sento niente.
Tossisco, una, due, tre volte, nel tentativo disperato di liberare i polmoni e riprendere fiato.
L'intero mondo sta continuando a franarmi addosso, collassa su se stesso trascinandosi dietro anche me- ché da quando i miei occhi si sono posati sul grembo di Joy sembra che niente possa avere ancora un senso.
Né io voglio dargliene alcuno.

Joy D. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora