Il mondo in una stanza

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«È una scusa e lo sai benissimo, Joy», sussurra Tris al mio fianco. E già sembra essersi estinta ogni traccia di felicità e di gioia nel rivedersi dopo la bellezza di due mesi.
Il tempo di un abbraccio e di qualche lacrima versata mentre posava la mano sul mio grembo- e già la magia è stata rimpiazzata dai discorsi seri, intoccabili, di quelli che, solo affrontandoli, hanno il potere di cambiare ogni cosa.
«Stai prendendo solo tempo».
E anche se fosse? È così assurdo che io abbia bisogno di una settimana ancora, prima di affrontare la mia paura più grande? Il passo più difficile?
Ho paura di cadere. Di ritrovarmi faccia a terra, ancora una volta distrutta e col cuore frantumato.
È ovvio che ho bisogno di tempo.
«Non ho detto che non lo affronterò. Solo- devo prima capire alcune cose»
«Cosa può esserci di più importante di mettere al corrente il padre di tua figlia che è... il padre di tua figlia?», mi rimbecca lei, indossando quell'odiosa presunzione di chi pensa di sapere ogni cosa del mondo, di me, di come funziona la mia mente e di ciò che accade al di fuori di essa. Poi sbarra gli occhi per evidenziare il tutto, la sua espressione d'un tratto mi appare altezzosa e arrogante.
Scuoto il capo, si è fatto tardi e mamma ci aspetta già in macchina. Non ho davvero voglia di discutere con lei di una questione che a fatica riesco ad affrontare da sola.
Ci sto lavorando. Voglio solo capire alcune cose, prima di passare all'azione- ché non posso rischiare di bussare alla porta di Harry e ritrovarmi a tu per tu con la sua donna versione occhi sbarrati sul mio pancione.
Ci penserò dopo la visita. O dopo cena. Magari domani mattina.
Che cosa potrebbe cambiare se rimandassi di qualche giorno la resa dei conti? Ho aspettato due mesi, anche se mi concedessi ancora una settimana sono certa che la bambina non me ne vorrà. Né tanto meno Harry.

Mezz'ora dopo ci troviamo all'ingresso dell'enorme ospedale.
Gli occhi scrutano disorientati i vari cartelli alla ricerca della direzione giusta per il reparto di ginecologia ed ostetricia.
Non è male come ambiente. L'odore più frequente è quello classico degli ospedali: un continuo alternarsi di disinfettante e minestra che mi ricorda vagamente la mia scuola dell'infanzia.
Dove ci sono bambini, c'è minestra e disinfettante, vallo a capire perché.
Saliamo al quarto piano dell'edificio, seguendo le indicazioni, e non è stato poi così difficile raggiungere in perfetto orario il corridoio della sala ecografie.
C'è una sola sediolina vuota- mamma e Tris mi guardano con ovvietà, ché sono io quella caricata di un paio di chili in più, al momento, quindi spetta a me il lusso di rimanere seduta durante l'attesa.
Mi guardo attorno, gli sguardi delle altre future mamme sembrano così diversi dal mio, sempre imbronciato e perso. Credo spetti a loro il premio per le gestanti felici e perfettamente in linea con ciò che ci si aspetta da una donna incinta: sorriso appena accentuato sulle labbra, espressione serena e rilassata, vestiti premaman- e, cosa più importante, età superiore ai vent'anni.
Qualcuna mi scruta con aria incuriosita, immagino che si stiano chiedendo tutti se io sia quanto meno maggiorenne. Ma la mia felpa rossa e le scarpe da tennis che porto ai piedi temo non siano granché d'aiuto nel nascondere i miei diciassette anni.
«Dawson?».
La voce di un'infermiera mi reclama di punto in bianco dalla porta ed io, facendo attenzione a non alzarmi troppo rapidamente, la raggiungo nello studio accompagnata da mamma e Tris.
«Durante l'ecografia può rimanere solo una persona- mentre per discutere dei risultati della visita, sarà necessaria la presenza del genitore», ci spiega, mentre richiude la porta.
Mamma mi ha già accompagnata a due visite, perciò questa volta decide di cedere il privilegio a Tris, che sta smaniando all'idea di poter vedere la piccola in anteprima mondiale.
L'infermiera mi fa stendere sul lettino, chiedendomi poi di scoprire l'intera zona compresa fra addome e basso ventre.
«La dottoressa McAdams arriverà fra poco», sorride infine e, acceso il macchinario, si reca fuori dallo studio, lasciandoci sole.
«Dici che riusciremo a vedere il viso?», mi domanda, sorridendo euforica neanche si trovasse al cinema a vedere il film del suo attore preferito.
«L'ultima volta non si vedeva granché bene», le rispondo e subito dopo una voce oltre la porta ci riconduce entrambe al silenzio, come se ci trovassimo in classe e stesse per entrare un professore.
Una manciata di secondi dopo- il mondo diventa una stanza e dalla sua porta entra l'ultima persona che avrei voluto e pensato di vedere.
Chelsea.
In camice bianco.
Mi irrigidisco istintivamente sul lettino, stringendo fra le dita la felpa arrotolata oltre il pancione.
Gli occhi increduli mettono a fuoco quel viso che ho tanto odiato, mentre resta ferma sulla porta, con lo sguardo adombrato fisso sulla mia cartella clinica.
Dall'espressione tesa direi che sa già cosa la aspetterà ad accogliere i suoi occhi, non appena li rialzerà dai fogli.
E io vorrei sbriciolarmi all'istante.
Mi aspetto che se ne vada, che chiami un altro tecnico a svolgere l'ecografia, così che lei potrà raggiungere in fretta una scala antincendio da cui chiamare Harry e fargli le congratulazioni.
Ma contro ogni mia aspettativa, prende un profondo respiro e veicola gli occhi azzurri su di me.
«Joy Dawson?».
La sua voce è cartapesta fredda e ruvida.
Annuisco e la guardo avvicinarsi in silenzio.
Prende posto accanto al lettino, sulla sediolina posizionata davanti al monitor.
Non dice nulla, il silenzio che aleggia nella stanza da quando è entrata da quella porta è irrespirabile.
Mi chiedo se il suo disagio- ed il mio- sia palese anche agli occhi di Tris, visto che la sta osservando con un cipiglio cupo in volto.
Con dei gesti professionali ed esperti mi prepara all'ecografia, cospargendomi il ventre di quel solito gel freddo e appiccicoso che ho già avuto modo di odiare con tutta me stessa.
Quanto meno lei è stata più attenta delle sue colleghe di Pristina e non mi ha imbrattato i pantaloni e la felpa.
«Ho letto che questa è la terza ecografia», annuncia infine, senza scollare gli occhi dal monitor neanche per un breve istante.
Ma ovviamente- cosa dovrebbe aver voglia di guardare?
«Sì», confermo in un sussurro, osservando la sua mano muovere il trasduttore da una parte all'altra del mio addome. Di tanto in tanto si ferma per pigiare dei bottoni sul macchinario e il bip che segue ogni volta diventa l'unico suono a interrompere questo silenzio ormai insopportabile.
Ma forse è meglio il silenzio insopportabile al sentire i suoi pensieri prendere voce.
Di nuovo l'ennesimo bip e subito dopo si schiarisce la voce, facendomi segno di osservare il monitor.
Tris, accanto a me, sembra rianimarsi, i suoi occhi lucidi osservano rapiti l'immagine marroncina sullo schermo.
È la prima volta che vedo il suo viso e per quanto mi stia trattenendo con tutta me stessa di non palesare all'esterno le mie emozioni al riguardo, non riesco a tenere a freno le lacrime. Fremo tra le labbra, prendendo un profondo respiro e con un gesto rapido mi asciugo le guance, osservando Chelsea di sottecchi.
Di fronte al volto della bambina, la sua professionalità vacilla per qualche istante e il suo sguardo rimane fisso sul trasduttore che sta stringendo fra le dita. Ovviamente non vuole vedere il volto della figlia del suo uomo.
Una parte di- per quanto stia detestando anche quella- la sta ammirando profondamente.
Alza gli occhi su Tris e subito dopo li posa su di me in una rapida toccata e fuga.
Poi prende un profondo respiro e continua con la visita.
«Chi ti ha accompagnato oltre alla tua amica?», mi domanda in un sospiro vagamente stanco.
«Mia madre».
Annuisce, sulle labbra si apre un sorriso quasi impercettibile.
«Il padre non è maggiorenne?»
«Sì. Ma non sa nulla». E non lo deve sapere- dice subliminalmente il mio tono di voce freddo e deciso.
«E come mai non sa nulla?», insiste lei, continuando a muovere quell'aggeggio lungo tutta l'ampiezza del mio ventre.
«Mi scusi, sono informazioni rilevanti?», ribatte Tris, innervosendosi al mio fianco.
Ci manca pure che la provochi così apertamente, per cadere dalla padella alla brace.
«Tris, lascia stare, dai -», sussurro, scoccandole poi un'occhiata implorante. Voglio solo finire questa visita e andarmene via- il più lontano possibile da qui.
Solo il pensiero di aver acceso io stessa la miccia della bomba, mi sta già facendo tremare di paura. Prima di sera il cellulare squillerà a nome di Harry e allora ne avrò di tempo per maledirmi, quando tutto esploderà e io rimarrò sola in mezzo alle macerie.
«In quanto medico è mio dovere assicurarmi del benessere della bambina. E non parlo solo di quello fisico», risponde con voce inflessibile e distaccata. «Quindi sì- sono informazioni rilevanti»
«Tris», la precedo, prima che possa dire altro.
E sbarrarle gli occhi in faccia per fortuna si risolve sufficiente a farle richiudere la bocca. Emette solo uno sbuffo contrariato dal naso, quasi a rimpiazzo delle parole che le ho soffocato in gola.
«Ad ogni modo- qui ho finito», annuncia la dottoressa McAdams- aka bionda sul piede di guerra.
Poi si rivolge a Tris, chiedendole di andare ad avvisare mia madre così che ci raggiunga.
Ancora qualche minuto e sarò libera di tornare a casa ad aspettare che il peggio bussi alla porta.
E temo non si tratterà di un'attesa troppo lunga, a giudicare dal suo volto apertamente insondabile e stizzito, ora che siamo rimaste da sole nello studio.
Si aspetta delle spiegazioni, quasi sicuramente, ma visto e considerato che sta facendo di tutto fuorché chiedermele, deduco si aspetti che a parlare sia io.
Perciò mi faccio coraggio e scivolo giù dal lettino, ripulendomi dal gel appiccicoso.
«Harry non sa niente e per ovvie ragioni- ho ritenuto sia giusto così».
Quanto meno ha ascoltato, visto che ha appena mosso verso l'alto le sopracciglia.
«Ovvie- ragioni»
«Cosa potevo fare? Ha scelto te. Tu accetteresti di avere al tuo fianco un uomo che sta con te solo perché c'è un bambino di mezzo?», insisto e la sua espressione muta di punto in bianco. Mi squadra con aria accigliata, riabbassando i fogli con le foto dell'ecografia freschi di stampante.
Senza dire nulla li pinza e li abbandona sulla scrivania.
Poi, con un movimento fluido ma lento, si appoggia al tavolo e si incrocia le braccia sul petto. Gli occhi rimangono bassi come anche le sopracciglia, aggrottate sotto il peso di qualche pensiero a me ignoto.
«Io e Harry non stiamo più insieme».
Sette parole, per giunta di una chiarezza estrema. Quella frase raggiunge le mie orecchie come una vera e propria esplosione anticipata.
Deglutisco, sforzandomi di regolarizzare il respiro improvvisamente corto e agitato.
Non stanno più insieme.
Harry è libero. Libero di tornare da me? O libero e basta? Non è il momento di farsi quel genere di domande.
«N-non ne sapevo nulla»
«Sì. L'avevo capito», sussurra lei, rialzando gli occhi su di me.
È impossibile mantenere un contatto visivo, per entrambe. Siamo odio incarnato l'una per l'altra e mi chiedo se ci sarà mai un vero vincitore in questa guerra fredda che si protrae ormai da mesi.
«Ah, non mi guardare con quella finta aria dispiaciuta-»
«Non sono dispiaciuta, sono confusa»
«Bene. Perché anche se lo fossi, non ti crederei. Hai tenuto la bambina e non gli hai detto nulla- chiaro segnale che provi qualcosa per lui che va ben oltre ad un classico capriccio da ragazzina. Di situazioni come questa comunque ne ho viste a bizzeffe, so come funzionano».
I miei occhi sbattono sul pavimento.
«E-come funzionano?», le domando esitante, ché se è veramente al corrente di quel che mi aspetta, spero mi possa illuminare lei al riguardo- almeno in nome della sua etica professionale.
«Funzionano che hai diciassette anni- non puoi crescere quella bambina da sola, per prima cosa», risponde lei, ma nella sua voce non c'è alcuna traccia di apprensione o anche solo di interesse. «Seconda cosa- Harry se n'è andato la sera stessa del nostro primo incontro. Quindi trai da sola le tue conclusioni e dopodiché fa' come credi».
Non faccio in tempo a risponderle che la porta dello studio si riapre, interrompendo di netto la conversazione. Mamma si affaccia con fare incerto, domandando se può entrare.
«Prego, prego», le risponde Chelsea, porgendole la mano, e un brivido mi scuote le viscere quando mamma risponde al saluto con un sorriso ignaro dipinto sulle labbra.
Le loro mani si stringono e il mio stomaco si contrae.
«Lei è la signora -»
«Dawson», risponde, prendendo posto sulla sedia.
Chelsea sorride, annuendo con aria perplessa. «Sì, scusi- intendevo il suo cognome di battesimo-»
«Sempre Dawson», ripete mamma e lo sguardo indagatore che l'altra ci rivolge sembra quasi voglia sottintendere un commento sulla nostra somiglianza in fatto di relazioni andate a finire male.
«Sia io che mia figlia non siamo state molto fortunate in amore, come avrà già capito».
Un sorriso dimesso che sembra voler dire mille altre parole si apre sulla bocca di Chelsea, mentre gira il foglio così da mostrarci i risultati dell'ecografia.
E subito i suoi commenti al riguardo si trasformano in un tripudio di tutto bene, parametri di crescita nella norma e via dicendo.
«È un po' sottopeso rispetto alla media, ma considerate le dimensioni del feto non c'è da preoccuparsi. Sicuramente non avrà preso dal padre», aggiunge e per un attimo il gelo cristallizza tutto, attorno a me.
Mia madre rimane immobile al mio fianco, i miei occhi si sbarrano e la dottoressa McAdams trattiene il respiro, forse rendendosi conto di aver parlato un po' troppo.
«N-nel senso che di costituzione è piccola, quindi direi che è simile a te, Joy», precisa, raccogliendo con dei gesti veloci i fogli e il resto dei miei documenti per poi impilarli e porgerli a mia madre.
Riprendo a respirare solo quando- per disperdere l'aria densa di imbarazzo- la vedo estrarre da un cassetto un modulo, spiegandoci che una volta a settimana l'ospedale organizza dei corsi preparto per preparare le neo-mamme al momento della nascita e ai primi mesi di vita del bambino.
«Deduco sia il tuo primo figlio, quindi se pensi possa interessarti- non devi fare altro che riempire il modulo e lasciarlo in accettazione. Quando entrerai nel sesto mese ti chiameranno loro per dirti gli orari e i giorni del corso».
La sua voce suona forzatamente cordiale e disponibile, ma nel suo sguardo lo vedo quanto stia agognando il momento in cui finalmente le nostre strade si divideranno di nuovo, con la speranza che non si incroceranno mai più in futuro.
I suoi occhi, mentre stringe la mano a mia madre, sembrano voler dire - arrivederci, tanti auguri con la bambina e a mai più.

Passo dopo passo, mentre ci allontaniamo lungo il corridoio, sento il mondo attorno a me affievolire la sua voce, quasi si stia sforzando di parlare piano per non disturbare i miei pensieri.
Mi ci vuole tutto il tragitto di ritorno dall'ospedale per mettere insieme i pezzi, ordinarli e paragonarli fra loro in un rewind degli ultimi due mesi e mezzo.
Rivaluto ogni singolo messaggio ricevuto da Harry mentre stavo ancora a Pristina, il suo avermi detto di volermi parlare una volta tornata qui a Bournemouth, oltre ai mi manchi e a quel genere di frasi che ho sempre svuotato volontariamente di qualsiasi significato volessero trasmettermi.
Perché fino ad oggi nella mia testa Harry stava con Chelsea. Fino ad oggi lui aveva scelto lei ed io altro non ero che una tentazione in cui ricadeva di tanto in tanto.
E invece è tutto al contrario- ed io sono un'idiota.
«Ma no, dai!, io l'ho trovata molto cordiale e disponibile invece!».
La voce di mia madre si insinua tra i miei pensieri, riportandomi in macchina.
«Cordiale e disponibile? Ma se quando ero dentro io l'ha tempestata di domande sul padre!».
Mamma volta  il viso verso di me, guardandomi accigliata. «Joy? Tu che dici?».
Ecco. Che dico? Nessuna delle due si immagina che stiamo parlando della ex fidanzata storica del padre di mia figlia. E una soltanto delle due sa chi sia il padre.
Direi che queste condizioni sono già più che sufficienti per farmi stringere nelle spalle, indossando la più indifferente delle espressioni.
«Penso avesse solo dei pregiudizi per via alla mia età- tutto qui».
Mamma annuisce, gettando poi un'occhiata a Tris attraverso lo specchietto retrovisore.
«Tieni conto che i casi di ragazze madri sono più frequenti di quanto immagini. Chissà quante ne avrà viste, prima di Joy»
«Sarà, ma aveva un modo di fare davvero irritante», insiste Tris, muovendosi alle mie spalle per avvicinarsi di più al finestrino.
Le manderò un messaggio, più tardi, per appianare la sue congetture e spiegarle il vero motivo dietro al comportamento poco amichevole della dottoressa McAdams.
Ma ci penserò più tardi.
Oppure dopo cena, insieme alla questione di Harry.
O magari penserò a entrambi domani mattina.

Sì, domani mattina è meglio.

Joy D. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora