Il respiro di Eveline

27 3 1
                                    

Quel giorno nevicava.
Il pomeriggio in cui Joy ha rotto le acque, dal cielo enormi fiocchi di ghiaccio candido danzavano su Bournemouth e su tutta l'Inghilterra.
Nevicava oltre le finestre del Liceo John Keats, mentre interrompevo la lezione per rispondere alla chiamata della madre di Joy.
E i miei occhi si erano afferrati a quei fiocchi oltre le vetrate, nel vuoto dell'emozione più terrificante e felice che mi avesse mai assalito alla gola.
Un solo "sì- arrivo".
E poi la corsa fuori dall'aula, quella ancora più serrata in corridoio e su per le scale, fino all'aula professori.
E i fiocchi- là fuori, continuavano ad ammantare il mondo di purezza per prepararlo all'arrivo del mio sangue a conoscerlo.
Lo sguardo di Logan acceso nel mio, mentre si alzava dal tavolo senza nemmeno bisogno di troppe spiegazioni, nonostante le settimane di gelo e di silenzi fomentati dalla mia posizione compromessa ai suoi occhi e dai mille pregiudizi e riserve mentali che nutriva per me e per la nostra ex studentessa.
«Logan, i-io devo-»
«Vai, Harry. Vola», ha risposto lui, strattonandomi dalla spalla per sospingermi di nuovo in corridoio. «Va' da loro- vai a conoscere vostra figlia».
Il cuore in gola, ho messo piede fuori dall'Istituto sentendomi subito sferzare e stordire dal gelo e dalla neve.
Stritolato dalla morsa ghiacciata del terrore, dentro- e avvolto dal freddo pungente, fuori.
La neve aveva fioccato per tutto il tempo.
Timida e incerta, mentre mi lasciava divorare i chilometri in direzione dell'ospedale, quasi trattenuta da una gentile e premurosa concessione di volermi far arrivare il prima possibile.
Si era aperto tutto davanti a me, facendomi spazio, mettendosi ai lati pur di non intralciare la mia corsa sfrenata.
Le strade sgombre, per quanto ghiacciate.
Ed io e l'Audi nera a sfrecciarvi in mezzo, veloci, inarrestabili, come se non esistesse pericolo più grave dell'arrivare in ritardo all'appuntamento più importante della mia intera vita.
Grossi e festosi, i fiocchi oltre i vetri dell'ospedale avevano accompagnato la mia corsa fino in sala travaglio.
E poi di nuovo più timidi e gentili, mentre ci sbirciavano prepararci insieme al momento del suo arrivo.
Quattro, lunghissime e snervanti ore per me e dolorose e sfiancanti per lei, durante le quali quegli enormi fiocchi candidi non hanno smesso un solo istante di attutire ansie e sofferenze, stringendo il mondo attorno a noi in un nido compatto e soffice.
E poi le sue urla.
Sempre più frequenti.
Sempre più terrificanti.
Le mie braccia attorno alle sue, mentre le cedevano le gambe, spezzata in due dalle contrazioni.
«Stenditi un po', amore».
La sua testa che fa "no", il fremito delle sue labbra, il sudore sulla fronte- e l'infermiera che ne sorrideva quasi fosse la completa normalità decidere di soffrire tanto e con tanta fierezza, pur di non cedere alla debolezza e aiutare il proprio corpo a prepararsi al parto.
A diciotto anni compiuti da meno di dieci giorni, Joy sembrava avesse già dato alla luce svariate vite, prima di questa, e che nella sua non si fosse preparata ad altro che a quell'unico momento.
Una forza della natura.
E la natura le si è stretta attorno, quella sera, nevicando più forte ed ammorbidendo col suo ghiaccio le urla, il dolore, i denti e le dita serrate, mentre spingeva e rovesciava indietro la testa subito dopo, crollando sfinita sul cuscino del letto in sala parto.
In un bagno di sudore, sotto le mie mani che non l'hanno lasciata un solo attimo- terrorizzato che la forza la abbandonasse e che io non potessi fare nulla per infondergliene altra- Joy ha continuato a combattere, forte e instancabile fino all'ultima, assordante spinta.
«Ci siamo», ha sorriso l'ostetrica.

Un vagito.
Il sorriso di Joy che si storpia.
I miei occhi che si aprono su quell'esserino tutto sangue e pelle.
E il silenzio che mi avvolge subito dopo, mentre lo scivolano sul petto della madre.
Mi guarda.
Ed io affondo nei suoi occhi, mescolando le lacrime alle sue.
Stiamo piangendo, mentre ci baciamo.
E mentre ci baciamo e piangiamo, Eveline piange con noi.
Forte e poderosa nei suoi primi respiri di amore e vita.

Quando Eveline è nata il mio mondo si è ammantato di purezza- e la neve ha continuato a danzare in cielo per ore e ore.
Senza arrestarsi mai.
E a distanza di sette lunghe, frenetiche, inafferrabili ore, mi ritrovo svuotato anche io, ora, su questa scala all'esterno dell'ospedale.
Il silenzio là fuori è interrotto solamente dallo sfrecciare delle macchine in strada.
Le guardo, osservando una realtà che d'improvviso mi risulta distorta. Mi chiedo dove corrano con tanta fretta, ché d'improvviso ai miei occhi il mondo si è fatto tanto piccolo e concentrato fra queste mura, da credere impossibile che la gente là fuori abbia voglia di continuare a rincorrere la sua vita, senza premurarsi di voler sapere ciò che è accaduto qui, nella mia.
Dove ve ne andate?, continuo a pensare, egocentrico e spudoratamente appagato del mondo e del suo ruotare improvvisamente attorno a noi.
Solo- sulle scale antincendio adiacenti i reparti di ginecologia ed ostetricia, mi sento fremere nel distacco imposto dall'una e dall'altra.
Ma l'aria aperta, resa ghiacciata da quella neve di gennaio, mi aiuta a depositare i pensieri e a cristallizzare i nervi.
Torno a respirare ad un ritmo più naturale, il mio intero corpo, nonostante i brividi di freddo, si distende e si placa.
Aspiro il fumo della sigaretta, assaporandolo lentamente nella bocca e soffiandolo altrettanto lentamente fuori, appoggiato con la spalla contro il muro.
Gli occhi fissi sulle luci delle strade, liquidi di vita ed arrossati dal pianto.
«Sono padre», sospiro in uno sbuffo di fumo, che si libra in alto verso il cielo punteggiato di neve.
Sono padre, continuo a ripetermi, mentre mi isolo ancora per qualche istante dal resto di amici e parenti già accorsi in ospedale.
Avevo bisogno di quel momento di stop, ma non me lo sarei mai concesso se le infermiere non avessero portato via Eveline e Joy per sistemarle e farle riprendere dai traumi fisiologici del parto.
Solo ora, nel freddo statico di quella sigaretta sulla scala antincendio, afferro la consapevolezza di essere stremato anche io.
Di una pesantezza mentale e di una tempesta emotiva senza precedenti, per le quali non smetterò mai di ringraziare, così come non smetterò mai di ringraziare neanche quella neve prodigiosa ed instancabile, che ha contribuito a riscuotermi e pizzicarmi la carne e il volto con dei gentili schiaffi.
Ripenso a quelli che ho tirato a Joy- la notte in cui si è ubriacata ed è collassata davanti ai miei occhi, al compleanno di Darren.
Mi volto indietro con un sogghigno a quel ricordo e incredulo spengo la sigaretta sul corrimano in ferro della scala.
«Pazzesco», sussurro e, infilandomi le mani nel giaccone, decido sia il momento di tornare dentro.
Sono passati dieci minuti da quando mi sono appartato qui fuori da solo- ciò significa che mamma e figlia mi verrano private a forza solo per una ventina di minuti ancora.
Raggiungo James, William, la madre di Joy e tutti gli altri.
Quello della signora Dawson è stato il primo volto che ho visto, quando sono riemerso dalla sala parto. Mi ha stretto subito in un abbraccio serrato- e forse avrei dovuto stringerla io con tutta quell'enfasi, ma ero troppo sconvolto ed euforico per poter reagire nella maniera più consona.
Anche le risate di Will e James, dopo che ho sfilato loro una sigaretta per incamminarmi poi da solo verso l'uscita di sicurezza, risuonano adesso per la genuina beffa che volevano esprimere nei confronti del sottoscritto.
«Meglio, papà?», sogghigna William, battendomi una pacca giocosa sulla schiena.
Annuisco, sorridendo più in me.
E così faccio nota anche di tutti gli altri: mamma e Gemma, con le bambine e il loro papà. Carter, Marion e Camille.
E poco più in là, al telefono, vedo anche lui- Logan.
Il cuore mi scivola dolce in fondo al petto, vedendo i sorrisi delle ragazze farsi calorosi e tremolanti dal magone.
Saluto mia sorella e le bambine.
Ashley non aspetta secondo di più per afferrarsi al mio giaccone e domandarmi dove si trovi la sua cuginetta.
Sorrido, cacciando indietro il groppo informe di lacrime.
«Le stanno- mettendo un bel vestitino», le rispondo, sentendo la voce tremare d'emozione. «Uno bello come il tuo», aggiungo, tirando su dal naso.
«Quando potrò giocare un po' con lei?», mi domanda allora.
E l'imposizione tassativa di non esplodere a piangere e annegarci tutti quanti in quella dolcezza che mi sta comprimendo il petto, mi irrigidisce persino tra le braccia di Gemma e in quelle di mia madre.
«Lei come sta?».
Annuisco. «È stata grandiosa», rispondo, inghiottendo il groppo. Dopodiché scivolo lo sguardo sulle mie alunne e sul mio collega.
Che la mia famiglia, la madre di Joy, quello che indovino essere suo zio e i miei due migliori amici siano qui, mi riempie l'animo di forza e supporto, certamente- ma è la nostra famiglia. Averli vicini in questo momento tanto lieto è capace di scivolare subito in ciò che si reputa la normalità.
Sono quelle tre teppistelle e Logan a gonfiarmi il cuore di una gratitudine e di una riconoscenza che hanno del sofferto dietro- e che per questo, mi risultano ancora più apprezzabili.
Senza proferire alcunché li raggiungo, stringendo e allentando le dita nelle tasche del giaccone e pressando le labbra in un sorriso stretto.
Ora che sono io il giovane allievo al cospetto delle mie studenti e dell'altro professore- mi chiedo se ho passato l'esame, quello più duro e sfrontato.
Lo vedo subito dai loro volti arrossati che quelle tre hanno pianto.
Scivolo lo sguardo su Logan, accettando la sua stretta di mano e le sue congratulazioni con l'animo lievemente incrinato dai suoi giudizi sulla questione.
«La ragazzina?», mi domanda. «Quanto è?», aggiunge poi, sorridendo con un po' più di partecipazione alla mia- evidente, stampata a caratteri cubitali in faccia- emozione.
«Uno scricciolo», rispondo, ridendo, e una lacrima scivola via a tradimento dagli occhi. La asciugo rapido nella manica della giacca. «Due chili cinque e settantacinque», aggiungo poi.
«Una miniatura!», ride lui, facendo ridere anche le ragazze, che per colpa di quell'unica riga bagnata sul mio volto hanno ripreso a piangere.
«Joy», dico poi, scuotendo il capo. «È stata fenomenale»
«La stanno sistemando un po', immagino»
«Sì», rispondo, gettandomi un'occhiata alle spalle, dove l'enorme portone bianco della sala parto è rimasto chiuso da quando ne sono riemerso io. «Penso ci sia d'aspettare ancora una ventina di minuti»
«Dovranno anche lavare e vestire la frugoletta»
«Eveline, prof», lo corregge Carter, asciugandosi gli occhi. «E lei? Come sta?»
«Stanca- quando mi hanno chiesto di uscire, aveva un po' di mal di testa»
«Ci credo, abbiamo sentito qualche urlo», storce il naso lei. «Ma lei- come sta», ripete.
«Io?».
Annuisce e d'un tratto i loro occhi addosso si fanno più morbidi, spilli di gomma che non vogliono più farmi male con le loro occhiate.
Come sto?
Sbuffo un sorriso dal naso. «E che ne so», rispondo, ché pensare di tradurre a parole ciò che mi sta frullando dentro da questo pomeriggio mi risulta impossibile, perciò lascia il tempo che trova anche solo tentare di farlo.
Alle mie spalle, la madre di Joy mi chiama. Dal suo tono di voce, sembrerebbe qualcosa di organizzativo, forse per preparare mamma e figlia alla degenza in ospedale.
Torno da lei, che nel frattempo sembra aver preso in simpatia soprattutto James e William.
E nel resto di quei venti minuti in attesa di Joy ed Eveline, da frammentato e diviso, il gruppo finalmente si riunisce attorno a me per aspettarle.
Un gruppo tanto improbabile ed eterogeneo da riflettere perfettamente il quadro del tutto in cui è scivolata la mia vita, nel giro di un anno.
Come perfetta antitesi, poi, dalla sala travaglio scivola un vecchio scorcio di quella vecchia, racchiusa ora in un lungo capitolo in camice bianco.
Lancia un'occhiata a tutto il gruppo, soffermandosi su mia madre, su Gemma e le bambine, su James e William, che per contro la squadrano ammutoliti nelle loro espressioni di pietra fredda. Dopodiché i suoi occhi si soffermano nei miei per un breve istante.
Sorride lieve.
Le sorrido di rimando. Non c'è spazio al rancore, all'odio o al risentimento in un giorno tanto ammantato di bianco e purezza.
E Chelsea, riconoscendo all'istante la sua estraneità a tutto ciò, si volta verso una tabella appesa alla porta del reparto.
Il clic della sua penna è l'unico suono proveniente dalla sua intera comparsa.
A testa china appunta qualcosa su una cartella clinica. Alza un foglio, appunta qualcos'altro e infine, riaperto il portone, scompare dalle scene esattamente come ne è apparsa.
Perfettamente sincronica, allora, la porta della sala parto si apre.
«Il padre di Eveline?», chiede un'infermiera, volteggiando gli occhi su tutti noi.
E il mio cuore affonda del tutto in una pozza calda di neve sciolta.

Joy D. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora