Dillo pure, perché tanto lo so già

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Deve trattarsi di un incubo.
Per forza.
Mancano solo due settimane alla partenza, ieri sera siamo usciti a cena e poi abbiamo fatto l'amore come non lo avevamo mai fatto prima, in questi due mesi.
Ho persino dormito da lui e non ho dovuto nemmeno pregarlo, che cazzo!
Ma allora chi diamine è questa donna? E che cosa vuole da lui, soprattutto?!
Harry non mi guarda neanche in faccia.
Deve essere un incubo.
Non posso accettare che fra pochi minuti al posto di trovarmi nel suo letto con lui addosso, scenderò dalla sua macchina e sarò costretta a trascorrere l'intera serata a violentarmi il cervello.
«Joy- non è come pensi».
La sua voce cupa e roca mi riporta indietro, con le spalle rigide premute a forza contro il sedile e il respiro affannato.
«Sa persino dove abiti», commento in un soffio di voce, volgendo gli occhi pieni di sgomento sul suo volto teso.
Mi sembra nervoso. Da come si sta torturando il labbro, non mi viene da pensare che si tratti di una cugina in visita.
E nemmeno da come mi ha chiesto di aspettarlo in macchina, porgendomi le chiavi senza nemmeno guardarmi negli occhi, mentre quella donna rimaneva in piedi davanti al portone con gli occhi fissi sul vialetto.
«Ti spiegherò ogni cosa», risponde finalmente, stringendo le dita al volante. «Ora- fammi andare a sistemare la questione e-», si blocca.
E si blocca nella voce, così come negli occhi aperti e fissi nel vuoto, come se la sua mente fosse già altrove, in un altro tempo e in un altro spazio.
Lontano da me.
«Sistemare la questione», gli faccio eco, ma la mia voce esce piatta, priva di colore.
Non riesco a credere né ai miei occhi né alle mie orecchie. Anzi, più che non riuscirci, mi rifiuto categoricamente di farlo.
«Joy, per favore», insiste lui a capo chino, le sue dita corrono a intrecciarsi fra i capelli e un profondo respiro scivola fuori dalle sue labbra.
Ma io da qui non mi muovo. Se vuole che scenda dalla macchina, dovrà spingermi giù a forza.
Perché non esiste che di mia spontanea volontà lo lasci tornare a casa sua, da quella donna di cui non so nulla e che dal nulla è anche apparsa, piombando come nulla fosse nelle nostre vite.
«Non me ne vado finché non mi dirai chi è e cosa vuole»
«Non è il momento né il luogo», replica prontamente lui, inchiodandomi con uno sguardo strano.
Sembra terrorizzato.
Di nuovo si passa una mano fra i capelli e di nuovo sospira con aria avvilita.
«Joy...», mi chiama ancora, tirando un lungo respiro dal naso.
«No».
Sobbalzo sul sedile, gli occhi sgranati sul punto del volante su cui ha appena tirato un pugno, esplodendo in uno scatto d'ira che non credevo nemmeno fosse in grado di provare.
Mantiene lo sguardo fisso sul finestrino per qualche istante, prima di voltarsi lentamente verso di me.
La vista dei suoi occhi lucidi mi colpisce in viso come uno schiaffo, rinforzando dentro di me i cattivi presagi che ho già fatto in tempo a maturare da sola.
«Harry...», ansimo in un soffio di voce, incredula che quella che gli sta rigando il volto sia davvero una lacrima.
Tira su dal naso, fremendo tra le labbra- dopodiché se la asciuga nella manica del giaccone.
«Puoi scendere, per favore?»
«Perché stai piangendo? Che cosa-»
«Puoi scendere?!», ripete a voce più alta e incrinata dal pianto.
Sento il volto accaldarsi mentre mi slaccio la cintura e scivolo le dita sulla maniglia.
Mi giro a guardarlo un'ultima volta, schiudendo le labbra a causa del dolore e della sofferenza che gli leggo in volto.
Ma lui di nuovo mi nega il suo sguardo, preferendo rivolgerlo al parabrezza.
I suoi occhi restano fissi sulla strada e le lacrime ora scendono più numerosi, rigandogli il viso scolpito in un'espressione di dura e fredda pietra.
Scendo da quell'auto strappandomi via a forza, ché ogni singola parte del mio animo adesso sta urlando disperata, ribellandosi a quel distacco imposto.
Ma non posso fare altro che fingermi sorda e, stringendomi le braccia al busto, mi trascino a stento sul marciapiede, accompagnando con lo sguardo l'Audi mentre fa inversione e si allontana lungo la via.
E dentro di me so già che è finita.

Harry's pov.

Fermo la macchina dietro alla sua, riluttante persino nel creare quella vicinanza tra le nostre auto.
Per tutto il tragitto di ritorno da casa di Joy, non ho fatto altro che cercare una sola, fottutissima motivazione plausibile che l'abbia spinta a tornare.
A ripresentarsi nella mia vita dopo tre anni e mezzo con quel solito sorriso sulle labbra- come se non fosse accaduto nulla e tutto fosse rimasto tale e quale, immutato nel tempo.
Come se non se ne fosse mai andata.
E come se io, nel frattempo, non ci sia morto qui.
Ma non una risposta ha soddisfatto le mie domande e ora non sono nemmeno troppo convinto di voler conoscere la verità attraverso la sua voce.
Chiuso in macchina, osservo il sedile vuoto al mio fianco notificarmi che la mia piccola dea a quest'ora si starà sicuramente massacrando la testa, a furia di porgersi le mie stesse domande.
Sembra assurdo che solo dodici ore fa ci stavamo svegliando nudi, nel mio letto, dopo aver fatto l'amore come se il mattino non sarebbe mai dovuto venire a risvegliarci.
Serro di nuovo i denti e scaccio via ogni pensiero dalla mente con un unico respiro dal naso.
Infine spengo il motore e scivolo fuori dalla portiera, richiudendola in un tonfo sordo.
Via tutto, compresa Joy.
Mi incammino a passo deciso verso casa e, preso l'ennesimo profondo respiro, apro la porta, trovandomi catapultato all'istante in una serie di continui e dolorosi dejá-vù, tutti avvenuti tra quelle stesse mura- ma in un tempo diverso.
È la sua sola presenza in casa mia a risollevarli dal passato, riproponendoli nitidi e freschi davanti ai miei occhi come se fossero tutti appartenenti ad un passato distante uno o due mesi.
La guardo alzarsi dal divano con un movimento leggero e cauto. I suoi occhi si posano su di me per qualche istante e i miei li accolgono, seppur mantenendo le distanze.
Distanze dovute.
Di sicurezza.
Appoggio le chiavi sul tavolino alto e stretto di fianco all'ingresso, rendendomi conto con un moto di stizza che era stata proprio lei a volerlo ad ogni costo, dopo averlo adocchiato alla bancarella di una fiera dell'artigianato in centro città.
Avanzo di un solo passo, tenendo gli occhi fissi sul pavimento- e il silenzio che ci circonda sembra riempirsi poco a poco di mille parole e mille pensieri veloci.
Si avvicina lei.
Ma si avvicina troppo.
E quando i suoi passi mi suggeriscono che le sue intenzioni siano di azzerare già le distanze, alzo una mano e la blocco.
«Lì dove sei andrà benissimo», sussurro, saettando gli occhi dal pavimento al suo volto, incorniciato dai suoi capelli dorati, acconciati nella solita treccia di lato.
Almeno questo sembra non essere cambiato
«Hai- tagliato i capelli», commenta, allargando le labbra in un sorriso timido e dimesso.
Fa sul serio? Dopo tre anni e mezzo esordisce così? Con un commento sul mio nuovo aspetto?
Sbuffo incredulo dal naso, portandomi le mani ai fianchi e lei deve aver colto la mia reazione come un segnale positivo, visto che sta ridendo divertita, ignara di quanto la sua illusione che tutto tornerà come prima mi stia urtando sensibilmente ogni singolo nervo.
«Ti concedo cinque minuti», le notifico infine, sfoggiando un'espressione tesa ed irreprensibile. «Cinque minuti in cui avrai il permesso di parlare senza che ti interrompi per mandarti al diavolo. Dopodiché uscirai da quella fottutissima porta e mi farai il piacere di non farti vedere mai più».
Annuisce, riabbassando lo sguardo, e per qualche momento non dice nulla.
Si limita a torcersi le dita, forse alla ricerca delle parole adatte al raggiungimento di un suo nuovo scopo- o progetto- e quando rialza il volto, il suo sguardo si fa offuscato e sofferente.
«Non hai saputo», esordisce, roteando gli occhi nelle orbite per scacciare le lacrime. «Ovviamente», aggiunge in un ansimo carico di dolore e istintivamente socchiudo gli occhi, guardandola con aria interrogativa.
«Credevo se ne fosse parlato- è un fatto piuttosto grave»
«Ero occupato a rifarmi una vita. Sai-»
«Il campo medico in cui prestavo servizio- è stato bombardato», continua, ignorando la mia frase pungente. «È successo due mesi fa».
Bombardato.
Serro le labbra con forza, sforzandomi di non lasciar trapelare alcun tipo di reazione sul mio volto.
Non è colpa mia se ha scelto quella come vita e come nuovo mondo. Era ciò che aveva preferito a me e alla vita che stavamo pian piano costruendo qui- insieme.
Chelsea sospira, indietreggiando verso il soggiorno ed io, non senza una certa riluttanza, la seguo, rimanendo però inchiodato sotto l'arcata.
Mi osserva risentita dal divano, rassegnata a quel vuoto che ho volutamente lasciato fra di noi che non ho intenzione di riempiere.
Non ancora.
«Ho- visto la morte in faccia», riprende a parlare a fatica, grattandosi distrattamente la fronte. «Due dei bambini che avevo in cura, sono morti fra le mie braccia. Stroncati, così- da una maledetta bomba».
Deglutisco, modulando il respiro, e intensifico lo sguardo su di lei.
«Siamo rimasti due giorni e due notti senza cibo, senza corrente né acqua e- viste le condizioni delle persone che si trovavano al campo- la maggior parte di loro è morta nelle ore immediatamente seguenti all'attentato. Donne- neonati, indiscriminatamente».
Di nuovo si impone di fermarsi e di riprendere il respiro, prima di continuare a parlare.
Rialza lo sguardo su di me, lasciando scorrere le lacrime sul viso.
«In quei momenti pensi a tante cose, Harry», sorride fra i singhiozzi ora, alzando gli occhi al soffitto, e un profondo sospiro le sgonfia il petto, facendola afflosciare tra le spalle.
«Le persone attorno a te soffrono, la- morte ti sfiora sempre più vicina, sempre più reale e cruda e così- finisci col rivalutare tutto. Pensi a ciò che è veramente importante nella tua vita, per darti forza e... quando l'incubo finisce, tu sei già cambiata. Senza nemmeno rendertene conto».
Serro i denti in una morsa d'acciaio.
Non voglio sentire il resto.
«Non potevo non provarci», ansima ancora, alzandosi dal divano con un moto dettato da un'improvvisa urgenza e in un paio di falcate divora quei metri di distanza, gettandosi fra le mie braccia.
L'impatto mi irrigidisce ancora di più.
«Mi dispiace, Harry- mi dispiace tantissimo», singhiozza sommessamente col viso nascosto nella mia giacca. «Ti ho pensato così tanto, amore mio- ho avuto il terrore di non poterti rivedere mai più-»
«Anche io ho vissuto con la stessa paura», la mia voce esce piatta, mentre le passo una mano sulle le spalle. «Per tre lunghi anni».
«Sono tornata», freme lei, posandomi le mani a coppa sul viso. «Sono tornata- non ti lascerò più, lo prometto», aggiunge con la voce rotta dal pianto. I suoi occhi azzurri scivolano su tutto il mio volto, alla ricerca di un segnale che possa convincerla che le sue parole abbiano sciolto la mia ritrosia.
E io, dopo qualche istante, rilascio il respiro che ho trattenuto a seguito dell'impatto fra i nostri corpi, che, dopo così tanto tempo, non so nemmeno quanto possano ancora spartire e condividere.
Ma Chelsea sorride lo stesso, carezzandomi il volto con ancora più urgenza- e senza dire altro posa piano le labbra sulle mie.
Dura un attimo e a quella bugia finisco per crederci.

Joy D. Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora