16 ✘ 𝐓𝐇𝐄 𝐄𝐌𝐏𝐓𝐈𝐍𝐄𝐒𝐒

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「 𝐋𝐮𝐤𝐞 」

«Quelle due ore di punizione sono state eterne. Non finivano più. Ma se ci troviamo in questa situazione dev'esserci un motivo, giusto?» La testa di Maya appoggiata sul mio petto fa tremare le costole ogni volta che pronuncia una parola, sento l'eco delle frasi risalirmi per i polmoni, la gola, fino ad arrivare al cervello per elaborare ciò che dice e trarne una conclusione.
«Luke, mi stai ascoltando?»
Sbatto le palpebre un paio di volte quando la sento pronunciare il mio nome. Quello lo sento più nitido, mi riporta alla realtà come uno schiaffo in faccia o un tonfo sordo. «Cosa?» chiedo. Poi faccio mente locale, il mio cervello riprende con il suo funzionamento e riassimilo di nuovo ciò che ha detto prima. «Oh, sì. La punizione. A me piace. Prima della settimana scorsa non sapevo i miei amici potessero avere idee così disparate su tutti quegli argomenti. È come se li abbia conosciuti di nuovo per la prima volta».

Sorride. Alza il capo dal mio petto e si mette ad accarezzarmi i capelli. «Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s'era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s'era potuta riconoscere così.»
«Questo gioco sta diventando difficile. Ma si può sapere quanti libri hai letto?» puntello i gomiti sul materasso e mi metto a sedere. Oscar Wilde sorride soddisfatta mentre dice «Tanti. Numeri indecifrabili. Li ho nascosti nelle mie Memorie Akashiche. So tutti i libri perché quei libri sanno me senza che io abbia mai posato lo sguardo su di loro. Il nostro cervello ci nasconde segreti inconfessabili.» La sua voce si è ridotta a un sussurro malandrino, con entrambe le mani mi accarezza le guance prima di lasciare un bacio sulla punta del mio naso. «Italo Calvino, in ogni caso. Il Barone Rampante. L' ho letto nella mia vita precedente. Italia, 1983, annata pazzesca.»
Non riesco mai a capire se ciò che dice lo dice perché lo pensa sul serio o perché le piace improvvisare. In ogni caso mi va bene lo stesso, l'importante è sentire la sua voce.

«Sembri fuori dal mondo, oggi. A scuola non hai pronunciato neanche una parola. È per Carter?»
Ci penso su. Inizio ad arrotolare i fili scuciti della manica attorno alle dita, fino a farle diventare rosse e poi scarlatte e poi viola. È per Carter? Sbuffo.
«Ha smesso di prendere le medicine. Per questo gli è venuta quella crisi. Diamine, mi sono sempre assicurato che le prendesse. Lui diceva di sì, poi contavo le pasticche nel blister e ce n'era una in meno ogni volta. È un truffatore del cazzo.»
Lei prende ad accarezzarmi i capelli e «Non è colpa tua», dice.
«È sempre colpa mia».
«Perchè dici questo? Se cerchi di aiutare una persona e quella finisce per calpestarsi i piedi da sola, non è colpa tua. Tu hai fatto la scelta di aiutare Carter. Avresti potuto non farlo. Carter ha deciso di fare a modo suo. Avrebbe potuto non farlo, eppure ciò che è successo è accaduto perché entrambi voi avete preso queste decisioni. Vi siete affidati a quel poco libero arbitrio che c'è ancora nel mondo e avete fatto le vostre scelte. E, arrivati a questo punto dove entrambi siete vivi e vegeti, non dovete pentirvene. Chiedetevi scusa per aver sbagliato, ma non pentitevene. Avete fatto ciò che ritenevate giusto, entrambi in modi diversi.»

«E se lui fosse morto? Non sarebbe stata colpa mia? Eh?» Comincio ad agitarmi perché quando penso a Carter morto comincio sempre ad agitarmi. Maya allontana la mano dal mio volto e mi guarda come se le facessi pena. Forse le faccio pena sul serio. «Non devi pensare a queste cose, Luke. Carter è vivo. Grazie a te. Piuttosto, gratifica te stesso per questo, non buttarti giù da solo. Nessuno ti sta facendo una colpa per niente.»
Annuisco, tiro su col naso e poi «Okay, hai ragione», dico. Lei mi porge una birra e io la tracanno fin quando non ho più fiato e mi viene da vomitare.
«Vacci piano, fiorellino» poi ne prende un sorso pure lei. Ce ne stiamo in silenzio a contemplare le nostre mani intrecciate sopra il materasso.

«I miei amici vogliono conoscerti. Me lo ripetono di continuo. Per me è una cosa importante, sai, come quando presenti qualcuno alla tua famiglia. Ti va? Una serata al bar, qualcosa di semplice. Non sono tipi da troppi fronzoli.»
Lei distoglie lo guardo dalle nostre mani intrecciate, poi cerca di sciogliere la presa con la scusa di sistemarsi delle ciocche di capelli dietro le orecchie. Sta pensando a qualcosa.
«Vedi, ecco... le presentazioni sono una parte ovvia e quasi importante di una relazione, ma... ecco non c'è alcuna relazione tra di noi.»
Aggrotto le sopracciglia. Quasi spero di aver sentito male, che sia stato lo stress o che ne so. Lei continua: «Oggi ti ho fatto venire qui per parlarti di questo. Io non ho bisogno di una relazione, in questo momento. Sarebbe solo un problema in più a cui pensare».
Ci rimango secco. Giuro su Dio. Boccheggio un paio di volte prima di tornarmene con l'espressione da pesce lesso sconvolto i cui sogni sono stati infranti davanti agli occhi. Giuro che mi viene voglia di mettermi a urlare.

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