La Baita

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La baita è avvolta dal silenzio tipico di quando cala la neve di notte e tutto sembra lontano. La sola cosa che gli faceva compagnia era il sommesso crepitio del fuoco che danzava con pigrizia sopra i ciocchi ardenti. I suoi occhi azzurri scivolavano oltre le lenti dei suoi occhiali da lettura e scorrevano sulla grafia zigzagante e infantile tracciata sulle pagine ingiallite e sottili del vecchio registro che teneva spalancato sulle ginocchia, seduto sul divano. Ogni tanto, a colpo sicuro allungava il braccio per sollevare la tazza di latte caldo, ma mai distoglieva lo sguardo da quella lettura, malgrado essa aumentasse la sua ansia. Era in quella baita arroccata sulle Alpi svizzere da tre

giorni ma Eric Wessler aveva scoperto il registro solo quel mattino, sotto un asse del pavimento della camera da letto. Il registro era scritto in francese, lingua che per fortuna conosceva piuttosto bene, ed era datato 1992. L’autore era uno zoologo, Francois Nimier, e nei primi capitoli del diario si limitava a descrivere il viaggio da Lione fino a quell’aspra regione della Svizzera per studiare i lupi nel loro ambiente naturale, senza distrazioni esterne. Completamente in solitudine.
Verso il capitolo sette, la prosa clinica e corretta del francese precipitava gradatamente in qualcosa che affascinò e terrorizzò Wessler al contempo. Persino la calligrafia di Nimier mutava, e da precisa e fluida, molto leggibile, diventava qualcosa di confuso, un susseguirsi di disordinati ghirigori che per essere decifrati gli costarono parecchia fatica. 

“Oggi so per certo di non essere più solo, su queste montagne” iniziava il capitolo ottavo del diario di Nimier. “Il branco che stavo studiando è andato via. Mi ha abbandonato. Ma non sono solo: il Bianco è con me, ora lo so, e so anche come mai le persone giù a Kirkholtz erano così ansiose di dissuadermi dall’affittare questa baita che tanto si addiceva al mio lavoro. Ora so che non era uno scherzo, uno sciocco quanto melodrammatico tentativo di intimidire uno straniero. Era vero, tutto vero.”

Wessler pensò che anche a lui era stato caldamente sconsigliato di prendere in affitto la baita. In paese, la gente aveva fatto la fila davanti alla porta della pensione dove aveva alloggiato inizialmente, chiedendogli, anzi no, supplicandolo di ripensarci. Ma tutte le volte che aveva voluto vederci chiaro, le persone non avevano aperto bocca. Si limitavano a dire che quello era un posto pericoloso, al che Wessler replicava che lui era un ranger esperto e che se non erano riuscite a sconfiggerlo le foreste dell’Alaska e del Colorado, cosa aveva da temere dalle quiete Alpi europee?

“Il Primo Segno lo si vede dagli alberi” istruiva Nimier nel suo diario misterioso. “Il Bianco lascia delle tracce per far capire che ti sta guardando, che si è accorto di te.” 

Wessler sollevò ancora la tazza e si rese conto che era vuoto e che iniziava ad avere sonno, malgrado il turbamento indotto da quella lettura. Mise una carta da gioco come segnalibro e salì al piano di sopra, infilandosi sotto le coperte, cercando di allontanare da sé il nervosismo, che però si insinuò nei suoi sogni, agitandolo sino al mattino. Dopo colazione, indossò le racchette e uscì: nevicava leggermente e il paesaggio era fantastico. Le paure della notte prima furono dimenticate e Wessler poté godersi la giornata, fino a quando, stanco e affamato, non fece ritorno alla baita. I suoi occhi intercettarono qualcosa sul tronco di un abete: un’ampia sezione di tronco era stata raschiata via, lasciandolo nudo, come se qualcosa vi si fosse accanita con gli artigli. Nei pressi aleggiava un odore viscido e selvaggio che lo nauseò. Con il cuore in gola, si rese conto che molti altri alberi erano ridotti in quel modo, i rami spezzati, la corteccia scorticata, i solchi incisi nel legno; gli sovvennero le parole della notte prima e questo lo indusse a marciare più spedito, infilandosi nella baita e chiudendo subito la pesante porta di abete. Più tranquillo, lasciò che la sua mente trovasse da sola qualche confortante spiegazione logica al fenomeno, che però non lenì completamente il suo malessere. Per rassicurarsi, Wessler andò nel piccolo studio e contattò via radio la stazione dei ranger, parlando con loro per una mezzora, spiegandogli l’accaduto.

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