san pietro

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Scendo le lunghe scale che dividono i due piani, faticando per colpa della luce puntigliosa che riflette i raggi di sole e la fresca aria del mattino.
La notte è passata dolce, nella stanza matrimoniale che è solo per me, già segnata da qualche valigia disfatta e almeno un quintale di foto lasciate sparse sulla scrivania.
Mentre scendo mi accorgo di essere immersa ancora una volta nel silenzio della grande casa. Cerco dunque con gli occhi il mio convivente, che trovo sul divano addormentato e coperto da un panno.
Spengo la televisione ancora accesa, mentre lo guardo recuperare tutto il sonno che a mia impressione, non soddisfa quasi mai.
Mi chiedo perché non abbia riposato in camera sua, e intanto cerco facendo meno rumore possibile, due tazze e qualcosa da mangiare per preparare la colazione.
Invano apro tutti gli sportelli della cucina, faccio confusione come mi ero prefissata di non fare, e mi rendo conto di aver svegliato Damiano.
"Donzella rumorosa" grugnisce rigirandosi nella coperta.
"Buongiorno, scusa" dico io.
"Buongiorno, non importa" replica.
A fatica trascina il suo corpo nudo dalla vita in su, verso di me, e grugnendo più di prima si lamenta per il freddo.
"Sei un mattiniero insomma?" chiedo ironicamente, e lui mi sorride prima di accovacciarsi e chiudere gli occhi appoggiato al tavolo.
"Perché non hai dormito su?" chiedo cercando di essere meno invadente possibile.
"Perché so tornato tardi, non volevo fare caciara e svegliarti" risponde finalmente alzando la testa.
È un gesto gentile, detto in maniera un po' impacciata. Lo ringrazio e gli consiglio di tornare a letto, ma si rifiuta dicendomi della giornata impegnativa che ci aspetta.
"Il Vaticano è un ragazzo intelligente" esclama d'un tratto.
Non ho capito, ma a lui sembra non importare.
A lui in realtà sembra non importare di molte cose.
Dei suoi genitori, dei suoi amici.
Di essere svegliato, del fatto che una sconosciuta viva in casa sua.
Non gli importa di fare la spesa, di curarsi se sta male e di dormire se ha voglia di dormire. Non gli importa di ridere se qualcosa non lo fa ridere, non fa attenzione quasi mai e rompe un sacco di cose.
Non gli interessano i convenevoli, le frasi di cortesia.
A Damiano non sembra importare dei ritardi, delle giustificazioni inutili e nemmeno dei castighi.
Damiano parla agli abitanti del suo mondo, e in fondo a nessun altro.
"Hai capito?" mi chiede sorridendo.
Faccio di no con la testa. "Va bene lo stesso" dice di fretta.
Guarda l'orologio e all'improvviso sembra agitarsi, si alza di scatto e si dirige verso il piano di sopra.
"La punta è qua tra un'ora così usciamo, cambiati e non farmi aspettare troppo" mi urla salendo le scale mentre si congeda velocemente.
Annuisco e finisco di bere il caffè che ho davanti.
La strana mattinata presto volge al termine, mi vesto e attendo che il ragazzo finisca di asciugarsi i capelli con il phon che sento anche dalla sala.
Dopo qualche minuto scende indossando una coloratissima camicia di cotone e dei jeans retti da una cintura vintage, con ai piedi dei tronchetti marroni e alle mani molti anelli.
Io lo guardo e lui mi guarda per una frazione di secondo che mi sembra non finire mai.
"Non farmi aspettare, mi raccomando!" gli faccio il verso squadrandolo dall'alto verso il basso, stemperando così un po' di tensione.
Mi pizzica sulla pancia e mi invita ad uscire, prende il cappotto e ci chiude la porta alle spalle.
La strada spoglia dal freddo è deserta e un po' malinconica: ma nei minuti dopo tutto succede di corsa, e mentre la lancetta scocca il mezzogiorno io e Damiano saliamo su un 982 pieno alla fermata in viale di Villa Pamphili, che si rivela sorprendentemente caldo all'interno.
La gente spensierata ci schiaccia uno addosso all'altro mentre il mezzo procede tranquillo fino a destinazione.
Scendiamo in Piazza Rinascimento e dopo qualche metro fatto a piedi come da promessa ho davanti la Basilica di San Pietro, che in quel preciso istante mi sembra la cosa più grande e bella del mondo.
Ridiamo quando varchiamo la soglia della piazza che inaugura ufficialmente la nostra presenza in un altro stato.
Accompagnata da Damiano che prova ad impressionarmi recitando a memoria tutti i costruttori della cattedrale e sbagliandone quasi la metà, faccio mille foto e ne scatto anche un paio a lui senza che se ne accorga mentre in fila si accende una sigaretta e continua a parlare di architettura.
Una volta entrati e fatti passare i primi dieci minuti di stupore lo convinco a prendere la guida audio che per sbaglio imposto in francese e che mi traduce orgogliosamente dall'inizio alla fine vantandosi della sua vasta conoscenza in materia.
Mi racconta allora del linguistico che non frequenta più da un po', e del perché non crede alle psicostronzate che la scuola italiana vuole imporre ai suoi studenti.
Ferma ad ascoltarlo passano gli astri e passano le ore, rivedo il mio di liceo e insieme a lui tutte le volte che non mi sono sentita all'altezza. Cerco di rimuovere il pensiero e sento di non voler mai più guardare indietro: mai più sentirmi in colpa o non in grado.
È il tipo di forza che Damiano sa darmi.
È questo coraggio e consapevolezza di poter sopportare tutto che fa l'amore con la sua sfumata delicatezza d'animo. È il tipo di obliquità che ammiro in lui, e che mi pare ancora essere il mistero più grande del mondo: perché in fondo a Damiano non importa di molte cose, ma se la notte arriva tardi dorme sul divano per non svegliarmi.
Esce per primo dalla chiesa e io lo raggiungo dopo aver sorriso verso l'alto al destino, o forse a Dio, o forse a nessuno.
Ci sediamo su una panchina davanti alla facciata: articolata da enormi colonne che inquadrano gli ingressi e la loggia delle benedizioni, e stiamo zitti per qualche minuto.
"T'ha tolto il fiato?" chiede d'un tratto riferendosi all'immagine di fronte a me che sto analizzando attentamente.
"A te no?" dico indietro.
Fa uscire dalla tasca della giacca un pacchetto di Camel ed estrae un'altra sigaretta che finisce subito in mezzo alle sue labbra.
"È complicato." risponde con ancora quella in bocca.
Lo guardo interrogativa mentre accende e prima di rispondere fa passare di nuovo una manciata di secondi.
"Vedi, la odi e passi la vita ad odiarla questa piazza de'merda. Quello che rappresenta, che ce ficca na'a testa da quando siamo piccoli." aspira e butta fuori il fumo.
"Almeno pe' me è così: io odio la religione, i religiosi e il loro amico immaginario.
Odio i vorrei ma non posso, odio 'na cifra di cose. Odio la fottuta ipocrisia, Giuliè, l'ipocrisia uccide il mondo." si rivolge a me questa volta.
"Ce litigo sempre con 'sto cazzo de posto, e lo odio anche di più, perché sa come farsi perdonare" continua.
"Guarda, alza la testa.." mi incita portando la sua mano sotto il mio mento rivolgendolo in su "..arrivi qua davanti a 'na certa che te pare d'esse ner paradiso in terra" e molla la presa.
"Con il tramonto d'inverno alle 4 che ce batte dietro e le strade che d'improvviso te sembra siano piene di gente raccolta ferma a guardare" continua.
Si blocca e guarda il pavimento, scuote la testa chiudendo gli occhi e poi li riapre.
"È divino, mi confonde, perché sto a pensa tutto il tempo che allora qualcuno lì in alto ce deve sta pe' forza, per creare una cosa così bella e scaldare anche 'r core di chi de bello non c'ha mica niente." dice ancora lasciandosi trasportare dalla foga, e facendo trasparire di più il suo accento marcato.
"Il vaticano è un ragazzo intelligente." conclude infine.
Ricompongo il discorso con quello di stamattina, ma non trovo le parole giuste, e lui non si aspetta che le cerchi.
Si alza e mi tende la mano, poi prende la sigaretta e la schiaccia giù in basso soffocandola nel cemento.
La luce viola e arancione ci riempie da fuori e in quell'instante un po' anche dentro.

take me out | måneskinDove le storie prendono vita. Scoprilo ora