9 I perdigiorno

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E così, dopo la mancanza del dottor Arrighini, la povera moglie, la signora Lucrezia, capelli castani tendenti al rosso, corporatura esile e carattere determinato, rimase sola dopo la morte del marito, assieme al figlio problematico e ai suoi grandi pensieri.

Si vedeva spesso girare per casa in vestaglia, anche quando, la mattina accompagnava in auto il figlio, fino alla fermata dell'autobus per salvarlo da un'altra, ormai ennesima, assenza da scuola.

Ma il ragazzo non ci sentiva da quell'orecchio. Ora che il padre non c'era più, era sempre più scontroso. Pigro, apatico, isolato da tutti, aveva preso l'abitudine di arrivare alla fermata quando l'autobus se n'era già partito.
Era il suo modo per gridare al mondo tutto il dolore che aveva dentro, rifiutando qualsiasi imposizione, figurarsi la scuola.

Tutte le mattine la santa donna seguiva il mezzo con la vecchia auto del marito e il figlio silenzioso accanto, avviluppata nella solita vestaglia ormai sgualcita, come fosse un ricordo a cui teneva troppo, tenace nel suonare il clacson per poter fermare il bus e mandare, finalmente a lezione lo scapestrato ragazzo.

Ma, forse per ripicca o per burla, l'autista gli faceva dei tiretti mancini, facendo ridere quelli affacciati al finestrino che assistevano alla solita scena mattutina, propedeutica ad un po' di buonumore per iniziare una nuova giornata di studio.

Quando l'autista vedeva il ragazzo che si avvicinava per raggiungere il sospirato predellino, l'autobus balzava in avanti, facendolo desistere, fermo con la gamba alta, innervosendo la madre, spazientita,  che imprecava a braccia alzate, con la sua vestaglia azzurra stropicciata e i capelli rossi spettinati che portavano il pensiero alla strega Amelia.

La povera donna continuava a suonare il clacson con gestacci verso l'autista, reo di aver perso la pazienza, tutte le mattine con lo stesso studente assonnato, che gli faceva perdere del tempo prezioso nell'esercizio del suo preciso lavoro.

Finché un giorno, mosso a compassione, fermò il mezzo. Al ragazzo non parve vero di poterci salire sopra, e appena mise il piede dentro, gli uscì un sorriso che sembrava più una smorfia, che la soddisfazione per essere riuscito nell'ardua impresa, dopo vani tentativi. Subito ci fu un'elevazione di fischi, applausi, risate di scherno, che già il ragazzo aveva messo in conto, di tutti i passeggeri del pullman e gli bastarono per accompagnarlo finalmente, alla non voluta compagnia teatrante, come la definiva, di una scuola che non lo rappresentava.

E quella volta non bastò al ragazzo per farlo appassionare alla vita, una vita ingrata che lo aveva reso sofferente nel momento più importante della sua crescita.

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Già che c'erano, i paesani misero in mezzo alle loro chiacchiere giornaliere anche il povero don Gabriele.
L'aiutante del parroco era un giovane fresco di studi, con tanta voglia di dare il meglio di sé ai ragazzi della parrocchia, bisognosi dei migliori insegnamenti e dei giusti esempi da condividere insieme, per una sana crescita.
Alto, magro, con la lunga tonaca nera che gli allungava ancora di più il suo metro e ottanta, occhi nocciola-dorato e capelli corti castano scuro, si muoveva con la sua modesta utilitaria, a volte con una bici da donna nera, tra le vie strette del paese per portare le sue novità pastorali.

Amava stare con i giovani, e nel suo oratorio c'era un gruppo sempre più numeroso di adolescenti festosi, affascinati dalle molte attività che il giovane prete metteva in atto per attirare più ragazzi possibile e allontanarli dalla strada e dalle pericolose tentazioni.

Era riuscito con i suoi modi affabulatori a distogliere quei ragazzetti perdigiorno dal bighellonare, e tutti in paese ne parlavano, portandolo in palmo di mano, decantando quella difficile impresa alla pari di una vittoria dei centro metri ostacoli all'Olimpiade.

Il paese è piccolo la gente mormora (Completa) Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora