Carmine Romano

11 0 0
                                    

L'auto correva veloce sull'asfalto ancora umido, preceduta da uno stridore di pneumatici e scoppiettio sommesso del vecchio motore. Carmine Romano chiamò l'attenzione dell'autista e, senza dire una parola, gli fece capire che quel giorno non sarebbero tornati a casa subito: sosta al quartier generale poteva voler dire solo che una riunione straordinaria era imminente.

Romano prese in mano il telefono e digitò rapidamente un numero di telefono; appena l'altro rispose il boss disse solo: «Al Maniero, in mezz'ora. Chiama i ragazzi», e riattaccò.

Il "Maniero" era un antico palazzo costruito agli inizi del XX secolo, completamente coperto dall'edera e circondato da un enorme giardino con alcuni degli alberi più rari del paese: allora era conosciuto per essere il quartier generale del crimine organizzato di Arkham e, probabilmente, lo è segretamente ancora oggi.

Appena varcato il pesante portone in ferro battuto gli pneumatici della Rolls iniziarono a tremare per via della ghiaia di cui era ricoperto il vialetto, cosa che infastidiva non poco Romano e che aveva da sempre voluto farlo cementare. Nel tremolio e nel rumore la vecchia macchina fece lo sforzo di prendere una curva stretta prima del portone d'ingresso del Maniero. L'autista scese ed aprì la porta al boss che smontò lentamente tirandosi su il colletto della giacca, non perché fosse freddo, ma perché (a parer comune) "faceva figo". Carmine Romano ci teneva all'apparenza perché, dopo tutto, un uomo deve sapersi tenere decentemente.

Il Maniero era freddo e buio e, dato che non era stato usato nell'ultimo mese, molto polveroso. Carmine si avvicinò al camino, girò una manopola ed un'enorme fiammata rischiarò e riscaldò il salone centrale, rivelando un lungo tavolo di legno d'ebano intarsiato in madreperla con una moltitudine di sedie ai suoi lati. Nessuno le aveva mai contate, ma Carmine aveva estimato fossero almeno ventisei: la famiglia era diventata grande e potente nel corso degli anni e almeno una volta per ogni riunione bisognava aggiungere una sedia... o toglierne una. Romano poggiò una mano sul tavolo e cominciò a camminare verso l'ingresso, strisciando le dita. Si fermò dopo due metri forse: una macchia di sangue incrostato, sicuramente un ricordino dell'ultima "riunione di famiglia".

«Frankie non avrebbe dovuto rubare soldi nel mio casinò...», disse Carmine pensando ad alta voce.

In quel momento bussarono alla porta.

Carmine si sedette nella sedia a capotavola, che era l'unica imbottita e rivestita con foglia d'oro, e premette un pulsante sotto il tavolo. Il portone si aprì dolcemente e sei uomini varcarono la soglia: tutti affiliati della famiglia Romano. Il boss li salutò con il cenno della mano e li invitò a sedersi. Pochi secondi dopo la porta si aprì di nuovo ed altri cinque uomini entrarono nel Maniero, e poi altri tre e tanti altri dopo quelli, tanto che nel giro di cinque minuti il tavolo era occupato completamente.
«Signori,» iniziò Romano, «benvenuti».

La sala si fece silenziosa come un cimitero: tutti pendevano dalla labbra del boss, nessuno aveva il coraggio di parlare né tantomeno di distogliere lo sguardo da lui. Romano si fece serissimo, se possibile ancora più di quanto lo fosse prima, con una mossa che era nota ai suoi picciotti come "lo sguardo". Quando il capo faceva "lo sguardo" si sapeva che qualcuno in quella stanza sarebbe morto. Violentemente.

«Vi starete domandando», riprese il boss, «come mai vi abbia fatti venire tutti qui oggi. Beh, si da il caso che ci sia stato un omicidio ieri pomeriggio, alla luce del sole. Ora, io non sono... "irritato" per l'omicidio in sé (ne ho fatti più io da solo che tutti quanti voi messi assieme), ma perché nessuno di voi ha chiesto il mio permesso a riguardo.

«Se mi dite chi è stato di voi ora, potreste uscire di qui tutti vivi. Attenzione: ho detto "vivi", non "interi". Avete un minuto per pensarci, dopodiché la scelta la prenderò io per voi, e non finirà bene per la persona che prenderò. Avete un minuto... usatelo bene», e quindi sprofondò nella sua sedia chiudendo gli occhi.

Poco dopo, una sveglia trillò e il boss si alzò in piedi.

«Molto bene. Chi è stato?», disse Romano calmissimo mentre camminava attorno ai suoi affiliati con le braccia incrociate dietro la schiena.

Tutti nella sala sudarono freddo... nessuno si fece avanti dichiarando l'omicidio. Romano non parve lontanamente sorpreso, aveva già le sue idee a riguardo, sapeva già che fare. Iniziò a canticchiare una vecchia canzone che sua madre era solita cantargli prima di metterlo a letto, e tutti sapevano che alla fine della canzone qualcuno ci avrebbe lasciato la pelle.

«Va', pensiero, su l'ali dorate...», cantava l'uomo con una perfetta voce tenorile, «Va' e ti posa sui clivi e sui colli...».

Cantò per un tempo che a tutti parve interminabile, poi, ecco i temutissimi versi finali.

«Che ne imponga al pati-ire virtù», poi si mise dietro alle spalle di quello che aveva il ruolo di secondo in comando nella famiglia e gli poggiò le mani sulle spalle, ed il canto riprese: «Che ne imponga al pati-...», le mani possenti si strinsero attorno al collo dell'uomo che morì soffocato pochi secondi dopo, «...-ire virtù».

Il boss allentò la presa e la testa del mafioso cadde fragorosamente sul tavolo.

Romano si sedette e disse: «Se non ci sono altre domande, direi che qui abbiamo finito». In ordine e composto silenzio tutti gli astanti si alzarono in piedi e uscirono dalla stanza.

La guardia del corpo di Romano si avvicinò al corpo e fece per portarlo via, ma il boss lo fermò e stette in piedi vicino al cadavere.

«Vedi, Lucio, lo so benissimo che non sei stato tu, ovvio. Non è nel tuo stile scavare nei palmi delle tue vittime, ma la tua avidità... e la tua invidia nei miei riguardi... le trovo... disturbanti. E mi irrita saperti così bramoso del mio potere. Senza rancore eh?», poi ridacchiò e diede l'ordine di liberarsi del corpo di Lucio.

Romano guardò fuori dalla finestra, sorridente e restò lì, imbambolato, ad aspettare che il sole tramontasse. Era una cosa che gli piaceva fare dopo aver preso la vita di qualcuno. Quando gli avevano chiesto perché lo facesse aveva risposto: "Voglio vedere con i miei occhi il tramonto di cui ho privato quest'uomo".

Quello di quella sera era un tramonto bellissimo: la luce del sole, che non poteva penetrare le nuvole, si gettava a capofitto dentro ad esse creando un gioco di gialli, rossi e viola che non era possibile osservare in diverse condizioni meteorologiche. Il boss era rimasto senza parole. Questa avrebbe potuto essere la dimostrazione che perfino l'uomo peggiore che esista si può sciogliere davanti alla bellezza ad alla maestosità di Madre Natura, ma non appena il sole fu sceso e le tenebre ricoprirono la città, Carmine Romano tornò quello di sempre. Risalì sulla sua Rolls Royce e disse seccatamente all'autista di riportarlo a casa.

Quella sera l'uomo più potente di Arkham andò a letto presto, senza concedersi il lusso della solita cena gourmet: l'unica cosa che voleva era un bagno caldo seguito dal mettersi a letto con un sottofondo di musica classica, Verdi o molto probabilmente Vivaldi.

Romano suonò la campana vicino al suo letto a baldacchino ed il maggiordomo arrivò subito dopo.

«Sì, Padron Romano?».

«Jervis, fissami un appuntamento per domani pomeriggio con il detective Hush Evans... e digli di portare il suo collega con lui. Devo ricordare a tutti e due con chi hanno a che fare finché i loro piedi toccano il suolo di Arkham».
Jervis annuì, fece una piroetta sui talloni e uscì dalla stanza con la stessa rapidità con cui era entrato.

Don Romano si coricò con un enorme sorriso da un'orecchia all'altra: «Domani sarà una gran giornata», si disse; poi si addormentò subito dopo.

ArkhamDove le storie prendono vita. Scoprilo ora