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Marc

Non ho mai avuto molte certezze nella vita, forse perché non sono mai riuscito a fidarmi veramente dei miei genitori, ho forse perché ho scelto di vivere con un mestiere che non sempre puo’ dare soddisfazioni.
Dipingere è sempre stata la mia valvola di sfogo, fin da quando ero piccolissimo.
Attendevo con ansia l’ora di arte alle elementari, ma è stato durante le superiori che ho capito che avrei veramente potuto vivere della mia passione.
Avevo sedici, diciassette anni. La professoressa Grimaldi, una giovane donna con dei capelli rosso fuoco, era appena arrivata nella nostra scuola senza particolari obiettivi. A suo dire, le persone con un talento innato nel fare qualcosa sono circa il 2% della popolazione mondiale. Questo non perché il resto della popolazione sia stupida, tutt’altro. Semplicemente non ha avuto la forza di credere nei propri sogni, o non ha lottato abbastanza affinché si realizzino.
“Io sono una di quelle persone.” ci aveva detto “Ho smesso di lottare per i miei sogni quando ho capito che i problemi familiari si sarebbero aggravati senza di me. Ma non per questo ho smesso di credere nei sogni, e alla vostra età dovete crederci più che potete.
E oggi sono qui per farvi capire che ognuno di voi è speciale, ognuno di voi ha il diritto di essere ciò che vuole.”.
Allora avevo sorriso davanti a quella presentazione così eccentrica, ma con il passare dei giorni la professoressa Grimaldi aveva imparato a farsi voler bene dalla maggior parte dei suoi alunni, proprio con la sua politica di “incoraggiare a sognare”.
Un giorno ci assegnò uno dei miei dipinti preferiti, “Tra il grano e il cielo” di Vincent Van Gogh.
Certo, esistono opere molto più belle, ma l’emozione che mi suscitava guardarlo non riuscivo a provarla osservando nessun altro quadro.
Fu per quel motivo che mi impegnai particolarmente nel dipingerlo, e consegnai quel compito quasi allo scadere del tempo.
Una settimana dopo la professoressa Grimaldi mi venne a cercare nel bel mezzo dell’ora di educazione fisica, per parlarmi di qualcosa di veramente importante.
Fu così che mi ritrovai seduto nella sua aula, e in quel momento non mi ero reso conto che da lì avrei cominciato una carriera.
Certo, non ero e non sarò mai al livello dei grandi maestri come Michelangelo o Van Gogh, ma vivo di ciò che amo, e non smetterò mai di ringraziare la professoressa Grimaldi per avermi aperto gli occhi sul mio talento.
Mentre mi siedo al tavolo del ristorante, accanto a George Morrat, il mio agente, quasi non riesco a credere alla persona che mi trovo davanti.
Sono passati almeno dodici anni da quando mi sono diplomato, ma la professoressa Grimaldi è rimasta tale e quale.
I capelli rossi sono sparati in tutte le direzioni e gli occhi verdi sono ancora pieni di quella che un giorno lei definì “luce dei sogni”.
Trovarla qui davanti è una sorpresa inattesa, ma estremamente gradita.
La abbracciò, e lei mi stringe a sé, contenta per l’uomo che sono diventato e per avermi aiutato a crescere.
-Non sapevo che fosse lei a voler acquistare un mio dipinto.- affermo, mentre un cameriere ci porta un piatto colmo di una pietanza tipica.
La professoressa Grimaldi sorride:- Sei l’alunno di cui sono più fiera. Ho sempre saputo che saresti diventato grande, non potevo non comprare una tua opera.
George mi guarda, ed io gli lancio un’occhiata per tranquillizzarlo. Conosco la signora Grimaldi, so che è una persona affidabile.
Ascolto le novità riguardo la sua vita professionale e privata. Si è trasferita a Chicago qualche anno fa, e non si è mai pentita di averlo fatto.
-E’ una città splendida, anche se durante l’inverno fa molto freddo.- sostiene, ed io annuisco.

***

L’incontro con la professoressa Grimaldi mi ha quasi impedito di pensare a Jenna per tutta la cena, ma ora che sono solo nella mia stanza d’albergo non posso fare a meno di riflettere sulla situazione.
Tutto andava liscio come l’olio, poi i miei sentimenti per lei hanno iniziato a riaccendersi, e tutto è precipitato. Come se non bastasse, non la sento da ieri sera, da quando me ne sono andato da casa sua sbattendo la porta.
Ero arrabbiato perché non ha accettato di partire con me, e sono altrettanto infuriato con me stesso per aver lasciato che i miei sentimenti si mettessero fra noi.
E’ per questo che decido di chiamarla, ma dopo qualche secondo scatta la segreteria telefonica.
Sbuffo e lancio il telefono sul letto.
Potrei chiamare Frederick, ma inizierebbe a farmi strane domande cui non sono ancora pronto a dare una risposta.
All’improvviso il telefono inizia a squillare.
Lo afferro e quasi non riesco a credere quando leggo il nome sul display.
Jenna.
Rispondo senza pensarci un secondo in più.
-Pronto?
-Ehi.- dice, e riesco quasi a sentire una nota di imbarazzo nella sua voce.- Come è andato il volo?
-Bene, grazie. Te? Come stai?
-Tutto bene, grazie. Sono stata molto impegnata, ho avuto un servizio fotografico per un matrimonio e dopo sono uscita con Madison.
Sorrido, e mentre mi racconta come è andata l’uscita, capisco che si sta sciogliendo e la telefonata volge quasi alla normalità.
-Mi dispiace per come mi sono comportato ieri.- dico ad un tratto.
Jenna trattiene il fiato:- Marc…non dobbiamo parlarne al telefono.
-E’ importante per me. Voglio scusarmi, e…
-No, Marc. Fidati. Non c’è bisogno di parlare al telefono.- mi interrompe ancora.
Rimango in silenzio, senza sapere cosa dire, e per fortuna Jenna ricomincia a parlare.
-Ho conosciuto un ragazzo.- sussurra quasi, ed il cuore accelera come se avessi corso la maratona di Boston.
-Ah sì? E come?
-Ero a cena con la mia amica più cara, e lui era lì. Devo ammettere che all’inizio non lo sopportavo, ma poi ho capito quanto fosse speciale persino nei suoi silenzi. E gli voglio un casino di bene, e mi sono pentita di averlo fatto arrabbiare solo perché mi sentivo insicura.
Sorrido, e quando sento bussare alla porta spero quasi di vederla là, davanti a me.
Mi alzo, e giro la chiave.
Jenna è proprio dove me l’ero immaginata, e mi sta sorridendo timidamente.
-Così ho deciso di partire, perché sei l’unica persona in grado di rendere Los Angeles noiosa.- conclude, poi rimette il telefono nella tasca dei pantaloni e mi guarda.
Indossa un giacchetto di pelle nera, che sono pronto a scommettere che non la stia scaldando affatto, e i capelli castani sono sciolti.
-Sei fantastica.- dico soltanto, poi la abbraccio di getto.
Non se lo aspettava, ma ricambia immediatamente.
-E’ riuscita bene la sorpresa?- mi chiede appena sciogliamo l’abbraccio.
Sorrido:- Sei matta. Sei completamente matta.

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