7. Cosa mi stai facendo?

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17 Novembre 2006

Ci mancava solo il tormentoso ricordo di quegli stupidi occhi del ragazzo, le sue mani sui miei fianchi e la bocca che provava a cercare qualche appiglio sulla mia, a rovinarmi l'ennesimo tentativo di riprendere sonno. Erano le quattro di notte e ancora mi rigiravo nel letto alla ricerca disperata di cascare in un abisso profondo, di perdere, anche solo per cinque minuti, lo stato di coscienza. Ma la mia mente e il fisico, si erano coalizzati per tenermi sveglio e per ricordarmi che in parte nella serata scorsa, ero stato io ad intrufolarmi nel bar.
Avevo ingurgitato anche del sonnifero pesante, cosa che prima d'ora non avevo mai preso in considerazione, ma in quel caso era più che necessaria. Fin'ora, pensai. Tuttavia l'eccitabilità, il nervoso dell'intera giornata e la strana sensazione allo stomaco, si erano opposte a qualsiasi effetto trasmesso dal soniffero. 1 a 0 per Clarke e il suo grigio elettrizzante.
Perciò eccomi qui seduto sul bordo del letto a maledire l'unico sconosciuto che con i suoi modi di fare ed agire, mi stava scombussolando l'esistenza, inducendomi un'insonnia senza fine. Ora lo sconosciuto aveva un nome, oltre che una stupida faccia con degli occhi grigi magnetizzanti. Si chiamava Clarke. Clarke, Clarke,Clarke, ripetei più volte mentalmente. Che cosa vuoi da me? Perché mi disturbi anche quando non ci sei? Perché più mi sforzo di non pensarti, di non vedere i tuoi tentativi di flirtare con me, e più non riesco a cancellarti?
Non valeva la pena restare altri minuti sul letto perché la notte era ormai che andata. Mi misi al volo la tenuta da corsa, scarpe da ginnastica e una felpa con cappuccio e uscii dalla stanza, lasciando Col dormire in santa pace. Beato lui che non doveva combattere con i propri senza di colpa, con le proprie emozioni.
Scesi piano le scale d'emergenza del dormitorio, giusto per non fare troppo rumore nell'ala grande dell'edificio.
Mi diressi fuori dal cancello principale e partii con un corsa leggera e la musica vintage alle orecchie. Almeno in questo modo avrei tenuto a bada sia la mente che i pensieri. Dietro la California University c'era una distesa pianeggiante adatta per chi volesse fare jogging o comunque una passeggiata. L'intera area era stata appositamente progettata per questo scopo, difatti era stato adibito un percorso con attrezzi vari per le braccia e il petto e per gli addominali. Insomma una palestra all'aperto. L'aria novembrina era fredda ma non da farti congelare anzi aiutava senz'altro a rimanere lucidi tutto il tempo della corsa. Passai vicino alle querce sotto le quali a volte venivo a studiare o a leggere, per rimanere solo e per concentrarmi al meglio per gli esami imminenti. Usavo la spaccatura alla base del tronco per appoggiarmi con la schiena e in tal modo perdermi nella mia solitudine o nello studio. A vedere quella spaccatura, nelle prime luci dell'alba, mi sembravano come due braccia cinse attorno ad un altro corpo. Sembravano le sue attorno al mio.
«No» gridai scuotendo la testa per scacciare la similitudine. Nemmeno mentre correvo potevo essere libero di non pensarlo. C'era per forza qualcosa a ricordarmi lo sbaglio che avevo fatto. Si avevo sbagliato ad assecondarlo. Avrei dovuto fermarlo e spaccargli il labbro e la faccia, almeno così avrebbe capito che quelle cose con me non poteva farle e nemmeno immaginarle possibili. Se solo avessi avuto la giusta distanza a compiere tale gesto, adesso non mi ritroverei a correre di prima mattina, per scrollarmi di dosso l'inevitabile sensazione di piacere che avevo. Non lo avevo picchiato perché in fondo, una parte insignificante di me, aveva provato piacere a sentire le sue mani possenti sulla pelle, il suo tocco che emanava una scossa ustionante e piacevole, e le sue labbra che volevano baciarmi. Baciarmi? Allora erano vere le dicerie su Clarke? Certo che erano vere. Se non fosse così, non avrei avvertito l'insolito desiderio che non si fermasse, che la ragazza non ci avesse fermati. Da dove veniva questa tolleranza nei suoi confronti?
«Maledetto» ripetei correndo più forte.
Aumentai l'andatura della corsa sfrecciando sul terriccio argilloso del parco. Superai le querce e il bivio che separava l'università dalla foresta dietro l'edificio. Mi inoltrai sempre più nel bosco incurante del fatto che i muscoli mi imploravano di fermarmi per riprendere ossigeno. Sentivo che mi tirava tutto il corpo e i polmoni che urlavano per riprendere aria. Era piacevole la sensazione dolorosa. In questa via riuscivo a concentrarmi sui muscoli affamati di ossigeno, al respiro che si faceva sempre più lungo e logorante e al cuore che stava per uscire fuori dal petto, per quanto battesse velocemente.
La corsa ha il beneficio di scaricarti e di rigenerarti, di allontanare brutti pensieri e momenti, di darti una pace temporanea che nemmeno un sonnifero è in grado di donarti. Il prezzo minimo è il dolore dell'affaticabilità. Meglio questo che altro. Avrei pagato cento volte pur di sentirmi fiacco e stanco per una corsa anziché per le notti insonne.
Dopo quindici metri dovetti fermarmi perché ero arrivato allo stremo delle mie forze. Ero fradicio dalla testa fino alle punte dei piedi tanto che la felpa e la maglia termica sottostante, mi aderivano come una secondo strato di pelle. Ormai non sentivo nemmeno più freddo dato che il mio sangue ribolliva. Mi lasciai cadere sul fogliame del sottobosco e feci gli esercizi di allungamento, giusto per non farmi venire brutti crampi durante le lezioni mattutine.
La mia mente, adesso era vuota come vuoti erano i miei pensieri. Se solo fosse stata vuota per tutto il giorno e anche la sera, mi risparmierei le corse.
Rincasai dopo un'oretta abbondante. Col stava ancora dormendo al mio rientro. Decisi allora di farmi la doccia nel bagno comune che avevamo a disposizione in fondo al corridoio del nostro dormitorio. Mi portai solo il necessario senza vestiti.
Chiusi la porta del bagno e mi tolsi la tenuta da corsa, i calzini e il resto, rimanendo nudo. Mi docciai veloce, giusto il tempo utile per rinfrescarmi e togliere il sudore.
Con la stessa rapidità mi asciugaii alla belle e meglio i capelli con una mano mentre con l'altra, mi passai un asciugamano per tutto il corpo. Ero davvero rilassato, anche se i muscoli erano leggermente un po' in tiro. Ma poco importava, se fosse stato il prezzo da pagare per poter dimenticare a tutti i costi la forza attraente degli occhi, del sorriso, e delle labbra di Clarke, lo avrei rifatto senza scrupoli.
La porta del bagno cigolò sotto il bussare insistente di qualcuno.
«Arrivo, non c'è bisogno di bussare così». Mi misi al volo un asciugamano attorno alla vita e scalzo aprii la porta.
«E tu che ci fai qui?» dissi quasi urlando difronte all'unica persona che volevo che scomparisse dalla faccia della terra. Non bastavano i pensieri e le parole inespresse, la corsa o qualsiasi altro modo per sfuggire alla sua presenza, perché inevitabilmente me lo sarei ritrovato sempre davanti.
Come se lo avessi chiamato o in qualche modo invocato, sulla soglia del bagno, Clarke mi guardava a sua volta sorpreso.
«No cosa ci fai tu qui alle 6 del mattino?» rispose con un altra domanda. Mi guardò in basso e come sempre, sorrise.
«Vedo che ti sei docciato. Notte focosa? O solo doccia mattiniera per iniziare al meglio la giornata?»
Pensava che avessi fatto sesso? Ma soprattutto perché ha usato un tono misto tra gelosia e irritazione?
«Non sono affari tuoi» sbottai girandomi e ritornando vicino alla doccia. Raccolsi la tenuta da corsa e gli altri indumenti e senza guardarlo, uscii dal bagno.
«Armie. Aspetta» disse prendendomi per un braccio. Fu la sua presa o in qualche modo l'inebriante elettricità evocata dalla sua pelle a contatto con la mia, a far traboccare il vaso.
Mi rigirai infuriato e questa volta lo affrontai senza indugi. Lo presi per il collo e lo trascinai all'indietro a ridosso del muro del bagno.
«Ti avevo avvertito ieri sera. Ma evidentemente te ne sei dimenticato.»
Gli sferrai una ginocchiata alla base dell'inguine e con il braccio destro gli piantai un pugno allo stomaco.
«Ora lo capisci che con me le tue strane idee non possono funzionare?» gli gridai dentro l'orecchio.
«Pensi che bastano sguardi ammicanti o quant'altro per farmi cadere ai tuoi piedi? Devi capirlo Clarke io non sono gay. Ficcatelo bene in testa»
Ero talmente adirato che a stento riuscivo a capire chi fossi diventato. Era la sua presenza a giocarmi un brutto effetto oppure erano le sue moine strambe e insistenti, a farmi arrabbiare come una iena?
Clarke, nonostante lo reggessi contro il muro, riuscì a divincolarsi dalla mia presa e con uno spintone mi fece cadere a terra. Si posizionò sopra di me e con il volto scuro di rabbia mi inveii contro.
«Le mie strane idee dopotutto piacciono anche a te. Senti qua come il tuo corpo da retta al mia presenza.»
Con una mano mi toccò all'interno delle gambe direttamente in quel posto. Continuò a stringere e guardandomi divertito. Lo divertiva vedermi sottomesso in quel modo. Lo divertiva a sentirlo duro tra le sue mani.Gli piaceva vedermi sdraiato sulle mattonelle fredde del bagno comune con solo addosso un asciugamano. Quel Clarke oltre che a infastidirmi mi metteva anche paura.
«Pezzo di merda lasciami andare.»
Più continuavo a lottare e più lui mi teneva ben saldo a terra.
Lo guardai negli occhi e notai un'espressione che non avevo mai visto in nessuno. Sembravano rilassarsi o meglio, distendersi quando incontrarono i miei. La sua faccia subì lo stesso effetto, anziché rimanere contratta per la rabbia, si rilassò e assunse la tipica smorfia di chi ha commesso un errore e se né è pentito fin da subito.
«Non voglio questo Armie. Voglio solo cercare di esserti amico.»
«Allora lasciami andare. Se vuoi essere mio amico» gli dissi cercando di portarlo di nuovo verso un minimo di razionalità.
Detto ciò allentò la presa sui polsi e con un unico movimento mi aiutò a tornare i piedi. Si scusò di nuovo per il suo comportamento.
Eravamo passati da una lotta ad delle scuse in un arco di un millisecondo. Si avvicinò e prima che potessi respingerlo me lo ritrovai avvinghiato. Anche il suo abbraccio riuscì a trasmettere la medesima reazione allo stomaco. Contratto, sottosopra ma inspiegabilmente piacevole.
Perché trovavo gradevole trovarmi tra le sue braccia? Perché non volevo scappare? Non volevo per niente ribattere o scansarlo. Volevo ancora perdermi in quella strana sensazione che avvertivo.
«Clarke. Per favore non farmi questo» riuscii comunque a dire. Sapevo dove voleva arrivare, ma io non potevo. Perché non ero come lui. Ero normale. Non ero e non volevo essere diverso. La diversità a volte veniva interpretata male. Oggigiorno la sessualità era ancora un tasto dolente. Non potevo permettermi di cadere nel tranello. Anche se il mio corpo la diceva e agiva in maniera del tutto diversa, non mi piaceva e basta.
«Armie io lo vedo. Sei come me.»
«No invece.» gli dissi cercando di prendere una distanza di sicurezza che mi consetisse di respingere il richiamo delle sirene.
«Lascia che te lo dimostri.»
Non so se per via delle parole dette con tono supplichevole o per i suoi occhi penetranti, o per il desiderio assopito della sera precedente di perdermi in quello sguardo, ma alla fine mi ritrovai tra le sue mani che stringevano delicatamente il mio viso, mentre le sue labbra si posavano sulle mie affamate di volerlo e di perdersi in lui.
Mi baciò piano senza sforzarsi di aprire un varco nella bocca per assaggiare la mia saliva, la mia lingua, la mia essenza. Automaticamente, come se conoscessi ogni spostamento dei suoi muscoli, aprii la bocca e lasciai che le nostre lingue si sfiorassero per danzare assieme in quell'impetuosa voglia di possedere l'uno e l'altro.
Con la stessa facilità con cui mi baciò, si staccò per guardarmi in faccia per dire:
«Volevo solo che tu vedessi ciò che ho visto io fin dal principio.»
«Vaffanculo» gli risposi.
Gli tirai un pugno in faccia e come un codardo, corsi in direzione della mia camera del dormitorio.
Avevo sbagliato perché ero caduto nel suo tranello: farmi capire ciò che non riuscivo a vedere. Farmi odiare per ciò che desideravo. Il mio corpo si stava ribellando. Lo sentivo e anche il mio membro duro e quasi eretto ne era pienamente convinto. La sua stretta attorno era stata non solo eccitante ma anche affamata ed affamati come lupi erano anche la mia impazienza di rivederlo, di toccarlo e di baciarlo di nuovo. Stavo sbagliando? Si, perché una cosa del genere era solo per malati di mente, per pervertiti. Stavo diventando pervertito allora?
La domanda mi uscì spontanea: Clarke cosa mi stai facendo?

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