5. Devo chiamarla

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Doveva dormire assolutamente. Non si era accorto che nel baciarmi, aveva esaurito tutte le sue forze come se fosse stato prosciugato. Dovetti sorreggergli la testa per quanto fossero deboli e sfiniti i suoi movimenti. La perdita di sangue e l'operazione lo avevano destabilizzato pesantemente e vederlo così spento, senza sorridermi era davvero straziante. Sapevo che erano solo questione di ore, forse una manciata di minuti e sarebbe tornato a sorridere più raggiante delle altre volte. I suoi sorrisi erano vitali per me. A differenza degli occhi, il sorriso era il mio sole che mi illuminava, mi riscaldava e mi faceva sentire al sicuro. Il sole che ero abituato ad ammirare, ora giaceva immobile dietro una coltre di nubi folte e grigie, da farmi raggelare. I suoi raggi avevano perso la luminosità tipica delle mattine e dei pomeriggi estivi. Al loro posto la coltre grigia e fredda aveva preso il sopravvento, lasciandomi perso nelle mie strane idee. Se non fosse stato per i suoni elettrici delle apparecchiature mediche, lo avrei potuto scambiare per morto, e a rendere l'idea ancora più ovvia e viva che mai, vi era la pallidità che sovrastava il normale colorito roseo della sua pelle liscia. Armie non era ciò che più temevo al mondo. Era anche lui perso ancora in un confine tra abisso e realtà. Chissà se il bacio che ci siamo dati, per lui era stato solo frutto della sua immaginazione? Poteva trattarsi di questo, dato che nel suo sangue ancora circolavano come una droga, l'anestesia.
Lo lasciai  riposare da solo per un momento, cullato dai suoni elettronici dei monitor. Focalizzai l'attenzione sul suono del bip dell'elettrocardiografo. La cadenza del battito cardiaco era così ipnotica e rilassante da cullare anche me. Non era identica in tutto e per tutto al suono del mio. Tuttavia quando stavamo assieme, entrambi i nostri cuori, i loro battiti frenetici per pompare più possibile sangue in tutto l'organismo, e i dolci suoni, eco della nostra voglia di vivere, diventavano un'unica cosa. Puzzle con puzzle si assemblavano e nasceva così il nostro amore, la nostra linfa che forniva sostentamento al nostro cuore. Istintivamente  ripercorsi i suoi stessi passi della mattina dopo aver fatto l'amore, appoggiando l'orecchio sinistro al centro del suo torace mentre la mano  destra all'altezza del mio cuore. Volevo capire se l'idea dell'entità unica fosse  a tutti gli effetti reale e non solo mera fantasia della mia mente.
Tum tum tum. Si lo era, pensai sorridendo. Il suo ritmo era cadenzato in perfetta sincronia con il mio. Armie era la mia esatta metà intagliata appositamente per incastrarsi con le parti della mia vita. Perciò si, eravamo un'unica cosa. Era stato comunque stupido pensare il contrario di ciò che eravamo. Agli occhi degli altri potevamo sembrare semplicemente due persone, invece eravamo l'opposto. Persino quando avevamo fatto l'amore, quando Armie si era perso in me ed io in lui, non eravamo altro che un'unica persona. Corpo contro corpo, fuoco contro fuoco, pelle contro pelle, le nostre anime oramai si erano fuse tra loro. Perciò era inutile pensare diversamente. Era più opportuno dire che se uno dei due soffriva, l'altro periva allo stesso modo, con la medesima sofferenza e dolore. Quando mio padre sparò ad Armie, era come se avesse premuto il grilletto contro di me. Mi ero sentito uno strappo per tutto il corpo e il suo sguardo, prima di cadere a terra incosciente, mi aveva dato il colpo di grazia: l'abisso era tornato più trionfante di prima.
Era normale provare paura in quella situazione. Ma allora perché, nonostante sapevo che lui stava bene, che era fuori pericolo, che il proiettile era stato tolto dal suo corpo consentendogli di vivere ancora affianco a me, sentivo la pressione costante che tutto stava per crollare?
La risposta era evidente. Solo che non volevo ancora pensarci o meglio non avevo proprio il coraggio di ammetterlo. Potevo considerarmi vigliacco, una persona cattiva e senza cuore, se avessi nascosto l'evidenza? Si lo sarei stato certamente e per questo dovevo pensare al bene di lui, dei suoi figli e di sua moglie.
Erano la sua famiglia ed era loro diritto di sapere cosa era successo al loro padre, al suo marito.
Marito, una parola inusuale e ormai lontana anni luce. Avevamo giocato il suo stesso gioco, la sua stessa carta: avevamo fatto l'amore. L'unica differenza è che noi lo avevamo fatto con sentimento e non come uno stupido gioco per il solo scopo di sentirsi desiderati e compiaciuti per ogni capriccio. Eppure, malgrado lo sbaglio commesso da Elizabeth, del litigio con Pierre, delle mie costole rotte, non avevo scuse. Lei e suoi figli dovevano sapere, anche se Armie mi aveva detto di restarne fuori con tutto ciò che riguardava la famiglia,perché ci avrebbe pensato lui
Avrei agito alle sue spalle e forse  non me lo avrebbe mai perdonato.
Uscii dalla stanza per dirigermi in infermeria. Chiamai April che stava aggiornando le cartelle e nel frattempo chiaccherava con gli infermieri del reparto.
«Ehm April» provai di nuovo  con un tono un po' più convincente per sovrastare i chiacchiericci.
Stavano parlando di noi, o meglio avevano scoperto chi eravamo.
«Ma quindi il tizio che è stato riportato giù dalla sala operatoria, sarebbe il ragazzo di quello magrolino? E per giunta sarebbero gli attori del film che ha vinto agli Oscar?» chiese sorpreso l'infermiere cicciottello e anziano.
«Già Guglielmo. Ci sono rimasta anch'io. Ho curato Elio per intenderci.» rise April.
Bussai alla porta nuovamente con più convinzione.
«April» dissi urlando.
Si volse al mio richiamo e mi venne  in contro allarmata.
«Che succede? C'è qualcosa che non va?»
«No lui dorme come un sasso. Volevo chiederti se per caso avete preso i suoi effetti personali. Telefonino portafogli cose così per intenderci»
Anziché rispondermi chiamò il collega che appena mi vide iniziò a scrutarmi affascinato. Tipica reazione dei fans, pensai.
«Piacere Elio... ehm Timotheé» mi disse scambiandoci una stretta di mano.
«Le cose del vostro ragazzo sono qui nel cassetto»
Mi aiutò a prendere i pantaloni, la camicia insanguinata (l'avrei buttata e incenerita) e il cellulare. Lo ringraziai ma prima di lasciarmi andare mi chiese con estrema gentilezza e timidezza, un autografo per suo figlio.
Ricambiai le sue richieste chiedendogli tuttavia di rimanere discreto. Ci mancava solo che lo venissero a sapere tutto il mondo. Oggigiorno bastava pubblicare una foto, una notizia sui social e tutto il mondo lo avrebbe saputo in un arco temporale di un nanosecondo.
«Certo acqua in bocca»
«Ehy Timotheé aspetta voglio parlarti»
Mi disse April.
Ci appartammo momentaneamente vicino alla stanza in cui Armie sonnecchiava sotto l'effetto anestesico. Era indecisa sul da farsi e anche in evidente ansia.
«Scusami. Non dovevo spifferare tutto.» Ecco il motivo di quell'improvviso stato di agitazione.
Non era arrabbiato, anzi poco me ne importava.
«Non fa nulla.»  le sorrisi per incoraggiarla, ma ciò che né uscì era senz'altro una scempio.
«Stavo pensando, se per te e il tuo ragazzo andrà bene, quando tutto questo finirà e quando si riprenderà, potremo uscire in quattro magari una sera.» disse con semplice spontaneità. Un'uscita in coppie?
«Quattro?»
«Si. Tu, Armie , io e la mia ragazza Stella.»
Mi piaceva come idea, tuttavia non sapevo se ad Armie poteva andar bene. Avevamo da poco superato il confine della strana amicizia creatasi tra noi, eravamo pronti a far sapere agli altri che a tutti gli effetti eravamo una coppia? Io ero pronto. Perché alla fine il parere degli altri poco importava. Ma il mio Armie era disposto ad uscire per fare nuove conoscenze ed essere finalmente se stesso ?
«Non saprei. Aspettiamo cosa dice il mio ragazzo.»
Quella parola a questo punto era diventata semplice usarla. "RAGAZZO" era troppo banale e restrittiva  nei suoi confronti. Armie era il mio uomo, il mio essere. Ecco uomo gli si addiceva di più.
«Certo aspettiamo.» detto ciò se ne tornò dai suoi colleghi lasciandomi solo nel corridoio del reparto. Le luci erano soffuse dato che i pazienti dormivano già da un pezzo. Il silenzio che veleggiava intorno a loro, era spezzato a fasi alterne, da rumori dei respiratori meccanici. Non sapevo a cosa servissero ma di certo non erano una cosa buona se le persone dipendevano dai quei strumenti. Per fortuna il mio sole, anche se pur affievolito, era in grado di respirare autonomamente. Un'ulteriore prova che era vivo e non morto.
Presi il telefono dalla tasca dei pantaloni di Armie. Lo accesi e attesi che la schermata iniziale apparisse. In quel momento ero in lotta con due parti contraddistinte. La prima, quella più capricciosa, egoista, insensibile e si, cattiva, mi spingeva a tutti i costi a fregarmene della telefonata. Di restare zitto e immobile affianco a lui,di essere almeno una volta nella vita un egoista, perché così doveva andare. Perché Elizabeth non era altro che una sconosciuta, una persona falsa che aveva ferito prima me e poi Armie. Perciò che senso aveva contattarla e spiegare che suo marito per puro caso si trovava in ospedale? Doveva sapere tutto di lui? Poteva benissimo vivere la sua vita e lasciare vivere Armie. Ma. C'era sempre un ma: I figli.
Harper e Foster doveva sapere che il loro padre non stava molto bene. E l'unica che poteva dirglielo con calma era la loro mamma. Per quest'ultima, l'altra parte più gentile, sensibile e amorevole, voleva che compiessi un salto da gigante: prendere la cornetta, premere i tasti del numero e avvertire del quasi incidente. Tra tutte e due, ce n'era una terza che fino al momento in cui avevo il telefono in mano, era rimasta in disparte e solo ora si stava facendo sentire con i suoi soliti modi. Era la paura, l'ansia di ciò che avrebbe potuto pensare la moglie. Lei non sapeva che suo marito mi aveva scopato diverse sere prima, che era venuto dentro di me mentre io sussurravo il suo nome e a sua volta venivo sul suo petto, che c'eravamo scambiati effusioni e palpeggiamenti durante la festa dell'anniversario di matrimonio, che il litigio di quella sera era dovuto all'unica ragione per cui continuavo a vivere. Il punto del nocciolo della questione era che Elizabeth non sospettava che anche lei stessa era passata da figura traditrice a figura con le corna.
Ecco perché ancora ero in bilico se compiere quel salto oppure rimanere saldo con i piedi ben piantati a terra. Chiamarla significava molte cose: domande sul perché si trovasse in ospedale, il perché eravamo assieme; la conseguenza della verità, perché la verità prima o poi sarebbe venuto a galla se non era già addirittura evidente. Se April e i suoi colleghi, persino mio padre, erano riusciti a capire che i nostri sguardi, le nostre carezze e sorrisi, non erano per niente amichevoli ma bensì amorevoli. Quindi Elizabeth ci sarebbe arrivata da sola. Uno più uno e avrebbe visto che suo marito era come il protagonista di Call me by your name ed io il suo esatto copione.
Avvertirla significava anche agire contro il volere di Armie e trasgredire ciò che mi aveva detto una mattina sulla spiaggia. A ripensare a lieve distaccamento che quella mattina lontana aveva creato, mi fece rabbrividire. Volevo davvero rivivere quel distaccamento? No che non volevo, mi risposi mentalmente.
Non lo facevo per lui né per sua moglie, ma per i bambini si.
Senza pensarci troppo presi il telefono, composi il numero di casa che sapevo a memoria e saltai giù dal bilico, pregando con tutto me stesso che il mio mi avrebbe permesso di entrare nella sua corazza invalicabile.
«Armie sei tu? Oh Armie ....» domandò Elizabeth dall'altra parte della linea.
«Sono Timotheé.»
«Timmy?» chiese con un filo di voce sorpreso.
«Perché mi chiami con il telefono di mio marito?»
Dovevo farlo. Dovevo aiutare Armie in quella faccenda e loro avevano bisogno di sapere.
Presi coraggio e dopo aver fatto un respiro profondo  e lento dissi:
«Armie è in ospedale.»

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