15. L'inaspettato

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La sveglia aveva suonato alle otto in punto come avevo programmato la sera prima. Puntuale a ricordarmi l'obiettivo fissato per la giornata: oggi sarei andato a prenderlo. Oggi avrei rivisto il suo sorriso e i mi sarei tuffato nell'oceano dei suoi occhi. Quest'ultimi giorni passati erano stati decisamente pesanti senza la presenza di Armie. Li avevo trascorsi, fatta eccezione per l'altra notte al pub,  tutti interamente nell'appartamento di Sors a Lynwood. Ero stato incline ad uscire perché mi sembrava ingiusto nei suoi confronti dato l'ultimatum che aveva sulle spalle. Il mio ultimatum. Mi sentivo un po' un traditore per essere uscito ieri sera. Soprattutto perché involontariamente mi ero ritrovato ad accettare le attenzioni strane di quel ragazzo per il quale facevo fatica a ricordare  il nome. Meglio, pensai. Se non ricorderò il nome riuscirò a tenere a bada il senso di colpa che piano piano iniziava a manifestarsi.
Mi alzai dal letto e prima di far colazione e anche per portarmi avanti con il tempo, mi lavai a pezzi. Passai accanto alla camera di Sors e vidi, facendo capolino dalla porta, che ancora era assopita e completamente rapita dal mondo dei sogni. Aveva un leggero sorriso stampato in faccia a dimostrare quanto fosse serena e spensierata. Beata lei. Accostai la porta e mi diressi in cucina.
Kelly sentendomi arrivare, trottorellò verso di me.
«Buongiorno anche a te, piccola» gli dissi toccandole il muso. Mi seguì fino al lavandino dove presi una tazza e un pentolino per riscaldare dell'acqua per il thè. Nel frattempo rovistai i diversi tipi di thè che aveva raccolto Sors in un barattolo. Scelsi quello alla menta e solo dopo averlo tolto dall'involucro, lo depositai all'interno della tazza fumante. Anche quelle mattina ritrovarmi a fare colazione senza di lui era  straziante. A volte Sorse usciva presto e pertanto non poteva tenermi compagnia oppure quelle poche volte che c'era, l'effetto era sempre lo stesso: mi sentivo solo.
Dovevo ringraziare il cielo perché presto non mi sarei sentito più in tal modo. Armie aveva scelto bene ed ora dovevo fare ciò che mi riusciva  meglio: aiutarlo e amarlo.
Prima di uscire di casa lasciai un post-it sul frigo in cui avvertivo Saoirse che presto avremmo di nuovo avuto il solito rompiscatole tra i piedi.
Finii la crostatina al cioccolato direttamente in macchina mentre con un mano facevo scattare il motore risvegliando anche lui, da un sonno profondo. Di mattina presto, tutte le strade del quartiere di Lynwood erano intasate di automobili. Tutte in fila perfettamente sincronizzate nello spostamento e nel suono dei clackson, frettolose di uscire dal centro per dirigersi chi in periferia  e chi fuori città. Io ero diretto alla Samaritan Great Hospital che per mia fortuna si trovava non molto distante dal centro di LAX. Tuttavia rimasi bloccato per una quindicina di minuti in mezzo al traffico mattutino. Cosa doveva fare la gente di sabato per uscire di casa così presto, proprio non riuscivo a comprenderlo. Avevo molta fretta dato che erano le 8:40 e dopo nemmeno un'ora avrebbero dimesso il mio ragazzo. Mi aggiunsi anch'io al coro dei clacson imprecando sottovoce affinché si liberasse qualche svicolo per poter fuggire.
Finalmente qualcuno dalla su aveva sentito il mio impellente desiderio e con ciò provvedette a farmi sguciar via verso la statale 504. Sfrecciai tra le altre macchine affondando al massimo il pedale dell'acceleratore. Era la prima volta che succedeva e forse sarebbe stata l'ultima dato che odiavo infrangere le regole. Quel giorno però chiusi un occhio, perché per sbrigarmi a rivederlo la corsa era l'unica cosa plausibile e concreta. Riconobbi lo svincolo a destra e l'insegna familiare dell'ospedale che annunciava l'area interna del dipartimento d'emergenza. Parcheggiai al limitare del marciapiede accanto al deposito dei rifiuti ospedalieri e di corsa mi precipitai al solito reparto. Anziché passar dal pronto soccorso, presi una scorciatoia che l'ultima volta avevo scoperto. Superai la scalinata per poi ritrovarmi su un pianerottolo con al centro una statua di Florence Nightngale e infondo due porte. La prima volta che avevo intrapreso la scorciatoia, sbagliai strada. Adesso sapevo che la porta a destra era quella che separava il reparto di chirurgia d'urgenza dal pianerottolo. La percorsi con disinvoltura e andai dritto in infermeria.
Sapevo che April non c'era perché dato il suo turno, era di riposo in quella mattina. Al suo posto trovai un infermiere gentile intento a preparare la terapia farmacologica. Mi indicò la stanza anche se sapevo quale era.  Mi ricordò inoltre che al termine della visita ci avrebbero fornito una sedia a rotelle per poter uscire dall'ospedale.
«Quale visita?» gli chiesi leggermente confuso.
«Il signor Hammer deve prima esser visitato dal dottor Chang. Il neurologo e il paziente hanno predisposto loro stessi la visita e hanno chiesto anche la sua presenza immagino.»
«Non ne sapevo nulla.»
«A ogni modo tra una decina di minuti il dottore verrà. Ecco qui la stanza.»
Lo ringraziai e lo guardai tornar indietro a prendere il carrello con cui stava passando la terapia. Deglutii più volte per mandar giù il nodo che avevo in gola. Per cosa ero preoccupato? Mi domandai. Ovviamente di qualunque cosa avrebbe detto il neurologo.
Bussai diverse volte e dopo aver sentito un "Avanti" entrai nella sua stanza di ricovero.
«Sei venuto» disse Armie più raggiante che mai. Era sempre così solare e bello quando sorrideva e lo stomaco era d'accordo con me.
«Sono qui.» 
Ci osservammo a vicenda per pochi secondi, giusto il tempo per ammirarne il volto. Quanto mi erano mancati i suoi occhi, il mento barbuto, i capelli biondo castani  totalmente sbarazzini. Stava ancora mangiando quando ero entrato. Mi sedeii sul bordo del letto poggiandogli la testa sulla spalla e mordichiadogli la pelle lucida e rosea.
Mi baciò la testa e con un mano mi accarezzò il viso. Ah quanto era calda e liscia la mano. C'era qualcosa di imperfetto in quell'uomo? No ovviamente no. Era la perfezione fatta  in persona.
«Non farlo mai più Tim. Non lasciarmi più decidere» disse sussurrandomi all'orecchio. Mi baciò il lobo, il collo e poi le labbra.
«No. Non lo farò stanne certo.»
Era la verità. Non mi importava se mi avesse messo da parte per prendere delle decisioni. I cinque giorni della sua assenza, erano bastati a farmi di nuovo impazzire.
«Cosa stavi mangiando?» gli chiesi guardando la scodella del latte.
«Un discreto cappuccino.»
Intinse un biscotto all'interno della scodella e prima di portarselo in bocca, mi avvinai il giusto per addentarlo.
«Ehyy... ladro..»
«Si decisamente discreto.»
Scoppiammo a ridere entrambi.
«Allora cosa ti ha spinto a decidere?»
Gli chiesi finalmente.
«Tu. Tu dannazione. Non potevo vivere con il rimorso che se avessi scelto diversamente, ti avrei perso di nuovo e forse per sempre. Non potevo e basta. Tu sei importante come i miei figli e per questo che ti ho scelto.»
«Quindi ciò che hai pensato l'altra volta..» non mi lasciò terminare la frase perché subito al volo la mia domanda.
«L'altra volta sono stato un perfetto idiota e maleducato. Mi sono lasciato prendere dalla paura e da come Elizabeth ha scoperto così velocemente la verità tra me e te. Perciò ti chiedo scusa amore mio.» mi baciò la punta del naso e mi abbracciò. In quella posizione ero scomodo ma perdermi tra le sue braccia ne valeva sempre la pena. Sentii il solito odore di pino e automaticamente gli annusai il petto il collo e i capelli.
«Che fai?» mi chiese divertito. Gli facevo il solletico.
«Il tuo profumo mi era mancato.»
«Di tante cose proprio il mio odore doveva mancarti?»
«Tutto mi è mancato.» feci scivolare la mano destra sotto al camice.
«Proprio tutto.» aggiunse in fine.
Lo aiutai a finir di mangiare il suo "discreto" cappuccino e successivamente a lavarsi a letto. Quando saremmo arrivati a casa, lo avrei buttato nella vasca da bagno, pensai sarcasticamente.
«Non sei preoccupatoo per la paralisi?»gli chiesi mentre gettavo le salviette nel cestino vicino al letto.
«Si.» disse.
Tornai al suo fianco e questa volta lo abbracciai, nascondendo il mio viso nel suo torace. Non so perché ma mi ritrovai a singhiozzare. Sapevo che non era colpa mia. Tuttavia il colpo sparato era opera di mio padre nonché sangue del mio sangue. Quindi in parte mi sentivo colpevole. Colpevole per avergli concesso di sparare. Se solo mi fossi buttato al posto suo, Armie non sarebbe rimasto paralizzato.
«Tim.- mi prese il viso tra le mani e con il pollice mi asciugò le poche lacrime versate - non fare così. Non è colpa tua.»
«È più forte di me Arm.»
«Forse ci sono possibilità di guarigione» disse tutto d'un fiato.
«Che significa?»
Mi raccontò che durante i giorni della mia assenza, del nostro ultimatum, Armie aveva chiesto ulteriori approfondimenti sulla questione. È così che conobbe il dottor Chang ossia il neurologo più bravo ed esperto del Great Samaritan Hospital. Gli avevano condotto dei test sulle gambe e stando a quanto detto le possibilità di recupero erano più che buone.
«Quant'è la probabilità?» gli chiesi.
«Il sessanta percento.»
Il 60 % era più della metà e ciò significava che forse avrebbe ripreso a camminare, a correre e scoparmi come solo lui sapeva fare.
«Ma come?»
«Su questo dovremmo aspettare il dottor Chang che arriverà a momenti.
Perciò ecco spiegato il motivo dell'imminente visita. Avremmo parlato del recupero della mobilità agli arti inferiori. Iniziai ad avvertire comunque un brutto presagio. E se le possibilità  fossero state diverse, perché magari i test si erano conclusi erroneamente, cosa avrebbe pensato Armie? Il solo pensiero mi fece rabbrividire.
«Che c'è?» domandò.
«Niente niente.»
Mi strinse sempre di più perché forse dopotutto aveva avvertito anche lui che ero preoccupato per qualcosa di impossibile.
«Eccomi finalmente.» disse il dottor Chang entrando nella stanza 13.
La preoccupazione di poco prima iniziò a farsi sentire di più quando notai che tra le mani teneva delle cartelle e degli opuscoli. Come sempre il cuore in gola era inevitabile quando ero sotto stress. Nessuno se ne accorse.
«Allora Signor Hammer. Come va oggi? Nota delle differenze rispetto ai giorni passati?»
«No. Dottor Chang.»
«Mm.»
Prima di proseguire con le domande, esaminò le gambe di Armie. Non sapevo cosa stesse facendo però ad un tratto quando pizzicò le dita dei piedi, Armie fece una smorfia e il mio cuore lo seguì con un tonfo all'interno del mio petti.
«Ho sentito» disse sorridendo.
«Fantastico. Vedo che piano piano la paralisi sta scemando.»
«Allora dottore?» gli domandai con  tono ansioso.
«Ho buone notizie.- iniziò a dire mentre metteva di fronte agli occhi di Armie, gli opuscoli e dei fogli- come vede queste sono le probabilità di un buon recupero. Devo dirlo non ho mai visto nessuno uscire illeso come lei in un incidente del genere.»
«Fortuna.»
«Immagino. Comunque il recupero sarà possibile con dell'ottima riabilitazione motoria.»
Prese gli opuscoli e indicò alcune figure mostranti movimenti delle ginocchia.
«Questi sono gli esercizi che dovrai compiere assieme ad un esperto. Per sua fortuna conosco la giusta persona che fa al caso vostro. Lo conosco da un po' e devo dire che è bravo nel suo mestiere.
Vi lascio il numero qui sotto.»
Scrisse un numero vicino all'oposculo e poi tornarndo a guardare prima me e poi Armie, ci diete dei consigli utili per accellerare la guarigione. Niente movimenti repentini e scattanti ma sempre piccoli e costanti. Niente pause in posizione eretta e nemmeno camminate al di fuori del contesto riabilitativo. Inoltre aggiunse, vedendo le nostre mani intrecciate l'una con l'altra, di evitare per diversi mesi di praticare rapporti sessuali.
«Come scusi?» gli chiese Armie leggermente arrossito in volto.
«Purtroppo l'astinenza dai rapporti sessuali è essenziale nei primi mesi di recupero dato che l'intera parte inferiore del nostro corpo gioco un ruolo essenziale nel sesso. A ogni modo le consiglio vivamente di seguire il mio consiglio.»
Detto ciò girò i tacchi e tornò a visitare gli altri pazienti. Armie mi guardò come per dirmi che tutto era uno scherzo.
«No. Hai sentito cosa ha detto. Per un po' niente sesso» gli dissi baciandolo sul collo.
«Ok. Ok.»
Anche a me dispiaceva un po' dato che per diversi mesi non avremmo più condiviso i corpi. L'importante era che lui tornasse quello di prima, felice e pronto a correre di nuovo.
«Che ne dici di dare un'occhiata agli opuscoli?»
Annuii con la testa ma ancora era scosso per via del divieto "no-sex". Gli allungai diversi depliant. Ne prese uno e iniziò a osservarlo.
«A quale dovremmo andare?» chiese usando il noi. Quel suo nuovo modo di coinvolgermi, mi trasmise un senso di appartenenza e felicità che non avevo mai avvertito con nessun'altro.
«Da qui.» gli indicai il numero del fisioterapista.
Mi ero dimenticato di chiedere al dottore come si chiamasse il collega da lui consigliatoci,  ma guardando attentamente Armie notò che  accanto al numero, in una calligrafia appena leggile c'era scritto un nome: dottor Clarke McKlones.
«Non è possibile.»

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