CAPITOLO 14

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Non so come mi sia lasciata convincere. Non è vero, lo so, ma non lo ammetterò mai ad alta voce. Una cosa è uscire di soppiatto dal campus - si tratta solo di memorizzare le posizioni delle telecamere rotanti, conoscere i punti ciechi delle guardie ed eludere i rilevatori di movimento lungo il muro sud. Ma delle scarpe non finirò mai di vergognarmi. Certo, gli stivali neri di Macey mi allungavano la gamba e mi davano un'aria molto Charlie's Angeles, ma in compenso rendevano quasi impossibile muoversi agilmente, e quando raggiunsi la mia postazione, una panchina all'angolo della piazza, avevo i piedi doloranti, una caviglia slogata e i nervi a pezzi.

Per fortuna mi rimaneva un po' di tempo per riprendermi. Molto. Troppo tempo.

C'è una cosa che dovete sapere degli appostamenti: sono noiosi. Certo, a volte facciamo esplodere roba e saltiamo dagli edifici e/o dai treni in corsa, ma la maggior parte delle volte stiamo ad aspettare che un certo evento si verifichi (difficile che ve lo facciano vedere, questo, nei film). Per cui mi sarei potuta sentire piuttosto stupida se fossi stata una ragazza qualunque - e non una del genere agente-segreto-accuratamente-addestrato-a stare seduta su quella panchina cercando di comportarmi in modo normale quando, per definizione, sono tutto tranne quello.

Ore 17.35: l'Operativo comunicava l'appustamento.

Ore 18.00: l'Operativo rimpiangeva di non essersi portata qualcosa da mangiare, perché non poteva abbandonare la postazione per andare a comprare una tavoletta di cioccolato, e men che meno usare il bagno.

Ore 18.30: l'Operativo si rendevano conto che è quasi impossibile avere un aspetto carino e/o seducente se si ha URGENZA di fare pipì.

Quella sera per compito avevo cinquanta pagine della'Arte della guerra da tradurre in arabo e una carta di credito-barra-modificatore di impronte digitale da mettere a punto per il dottor Fibs, inoltre Madame Dabney alla fine di Cultura e Integrazione aveva accennato a un possibile test a sorpresa.

Eppure eccomi lì, a strofinarmi la caviglia gonfia e a pensare che mi sarei meritata sei crediti extra in Operazioni Sotto Copertura.

Guardai di nuovo l'orologio: otto meno un quarto. Okay, pensai, gli do tempo alle otto e poi...

«Ciao» sentii dietro di me.

Oh, mamma. Oh, mamma. Non potevo girarmi. Oh, accidenti, dovevo girarmi.

«Cammie?» disse lui di nuovo, come se fosse una domanda.

Avrei potuto rispondere ciao in quattordici lingue diverse (senza contare l'alfabeto farfallino). E invece quando me lo trovai davanti rimasi senza parole.

«Ehm... ah... ehm...»

«Josh» disse lui, puntandosi un dito al petto, come se pensasse che me lo fossi dimenticato.

Ma quando era dolce? Lo so che non sono un'esperta di ragazzi, ma ho seguito diverse lezioni sulla comunicazione non verbale, e devo dire che pensare che una persona si sia dimenticata il tuo nome sta parecchio in alto nella lista degli "indicatori di modestia" (non che ne abbia una, ma adesso saprei da dove cominciare).

«Ciao.»

L'ho detto nella mia lingua, vero? Non era arabo o francese? Oh, per favore, angelo custode, non fargli pensare che io sia una studentessa scambista... o peggio, una che sa, tipo, tre parole di una lingua straniera e le usa in continuazione solo per far vedere che quanto è più intelligente, colta e in gamba di tutti gli altri.

«Ti ho visto seduta qui» disse lui. Okay, sembra che sulla questione lingua ci siamo. «Non ti ho più incontrata in giro ultimamente.»

«Ah, sì» risposi di getto. «Ero in Mongolia.»

VORREI DIRTI CHE TI AMO MA POI DOVREI UCCIDERTIWhere stories live. Discover now