CAPITOLO 1- Reiko

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 Un cimitero.

Il cielo era scuro: senza luna, senza stelle, nuvoloso, come in attesa di qualcosa... non tirava un solo filo di vento mentre camminavo, procedendo fra le lapidi coperte di muschio e piante rampicanti.
Non sapevo dove mi trovavo, ma avevo come l'impressione di conoscere quel posto, di esserci già stato. Sapevo esattamente dove andare, come se una voce mi stesse indicando la direzione da seguire.
Non c'era un solo rumore nell'aria: nessun crepitio dal nero degli alberi, nessun animale che si muoveva fra i cespugli rovinati e incolti, solo un vago suono, impercettibile, ma musicale, che cresceva e si spegneva a ritmo costante negli angoli bui del giardino.
Ero lì, ma non c'ero: era come se stessi camminando fuori dal mio corpo, non avevo battito cardiaco e non avevo respiro, tuttavia VEDEVO e SENTIVO, e avvertivo una vaga presenza nella cupa oscurità.
Gli alberi sembravano usciti da quadri disegnati da una mente allucinata, come in un Goya del periodo tardo, ai limiti della follia, con quei rami stecchiti e ritorti che si allungavano verso le nuvole violacee dello spazio celeste e le foglie morte che pendevano pesanti verso il terreno indurito.
Tutto era luminoso e vago, al tempo stesso.
Quando mi ero fermato, era stato davanti a una tomba, la cui lapide sembrava essere stata ribaltata da strani smottamenti del suolo, che giaceva in piccole collinette deformi tutt'attorno al rettangolo di base che ricopriva la bara, qualche metro più in basso.
Il suono a quel punto era salito in crescendo, adesso si poteva riconoscere per ciò che era veramente: un violino, malinconico e lontano, tuttavia chiaramente percepibile.
Conoscevo la melodia, o meglio, la ricordavo: un pezzo lento di Bach, che mio fratello mi aveva più volte fatto ascoltare, quando ancora prendeva lezioni. Era il suo favorito.
Ad un certo punto, tutto attorno alla lapide pareva essersi fermato, il violino l'unica cosa viva che mi teneva in contatto con la realtà che mi circondava.
Non c'era alcun nome su di essa, poteva essere la tomba di chiunque, ma io sapevo che non era così: il mio corpo etereo sentiva la presenza del male, del pericolo, un male che mi era ben noto.
I Camminatori erano lì. ERA lì.
Istintivamente, avevo fatto un passo indietro, notando con orrore che mi muovevo come al rallentatore,come a volte capita nei sogni, quando si vuole fuggire da qualcosa e le proprie gambe sembrano spostarsi in slow-motion rispetto al proprio inseguitore.
Mi ero voltato, ma era stato troppo tardi- con la coda dell'occhio avevo intravisto uno spostamento, poi un grosso boato aveva zittito improvvisamente la dolcezza del violino, facendomi tremare la terra sotto i piedi.
Ero tornato a fissare la tomba, ed allora avevo visto proprio quello che avevo temuto: una lunga mano scarna e bianca protesa dal terreno verso l'aria, che annaspava,come per respirare al posto dei polmoni, a reclamare la vita.
"Dio mio" avevo pensato, osservandola raggelato mentre curvava le dita fino ad afferrare il suolo, in cerca di una presa, e sollevava fuori dalla terra il resto del corpo.
Erano comparsi in successione un braccio, magrissimo, una spalla, una parte di busto e, infine, la testa, spettinata e annerita dalle zolle, ma ben visibile, pallida come la morte come tutta la corporatura.
Due occhi vitrei e luminescenti mi avevano trapassato, ghiacciandomi il sangue nelle vene, poi la bocca si era aperta in una smorfia bestiale e avevo visto le zanne, lunghe e appuntite come due pugnali, che scintillavano sullo sfondo cupo del camposanto.
Il vampiro, o, come lo chiamano tutti,il Nightcreeper, mi aveva squadrato da capo a piedi, poi si era alzato e mi aveva sorriso...o meglio, sogghignato.
Allora tutto era scomparso e il paesaggio era improvvisamente mutato.
Non ero più nel cimitero, ma nel mio bagno, di fronte allo specchio, che mi guardavo: sapevo chi era colui che avevo visto e mi ero paralizzato nel riconoscerlo.
Non era mio fratello, come inizialmente avevo creduto, ma il suo assassino, il Nightcreeper più mostruoso e orribile che esistesse in circolazione, che io volevo, DOVEVO eliminare.
Per un attimo, tuttavia, lo avevo temuto, perché vivevo effettivamente nel terrore di essere scovato, essendo costretto a combatterli nascosto, dormendo in un posto sicuro di giorno e muovendomi per le strade la notte, senza riposo, senza una meta, solo alla ricerca, a battere i vicoli, dove in genere essi trovano le loro vittime, per stanarli e distruggerli.
Non c'era niente di poetico, in questo, niente di eroico o altruistico, bensì qualche cosa di molto più tragico: volevo vendetta per come avevano massacrato mio fratello, come se fosse stato un piccolo leprotto al cospetto di mostruosi cani da caccia.
Li avrei distrutti uno per uno, finché ad arrivare al vero unico responsabile e assassino, colui che quella notte lo aveva preso e prosciugato, portandolo via da una vita priva di colpe.
Avrebbero pagato tutti per l'errore commesso da uno, perché essi non erano umani, non erano una razza, erano solo un male da estirpare dal mondo. Li avrei scovati e avrei scovato Carter, l'omicida, e quando l'avrei fatto, avrebbe pregato di non essere mai rinato.
Nel frattempo, avevo deciso di lasciare ovunque il mio biglietto da visita, per rendere loro noto che sapevo come affrontarli e uscirne vivo.
Ma non avevo contato questo.
Erano diverse notti ormai che avevo perso il sonno e che quando chiudevo gli occhi tutto quello che mi ritrovavo davanti era Carter, con quei capelli scuri tinti di un grigio metallico e gli occhi neri, profondi come due fosse e luminosi come due lanterne.
Era diventato la mia ossessione. E il mio terrore.
Per questo il mio terribile sogno, e adesso ero chiuso nel mio bagno, senza nemmeno sapere come ci fossi arrivato, illuminato da una luce tremolante al neon che mi faceva sembrare un malato, e un ronzio disturbante nelle orecchie.
Ero completamente sudato, eppure non avevo caldo, anzi, piuttosto il contrario, ero completamente gelato,con la pelle accapponata in ogni centimetro libero della sua superficie.
Odiavo dirlo, ma per quanto lo detestassi, avevo paura di Carter.
Non sono un supereroe dai poteri paranormali, e non sono un campione di arti marziali, pur avendo ascendenze orientali, manifeste molto chiaramente nel taglio dei miei occhi e nel colore classico dei miei capelli, che paiono di una qualche strana varietà della seta; l'unica cosa che mi teneva davvero vivo era questo rancore che covavo continuamente dentro e ricercavo in ogni viso di camminatore che uccidevo.
Nonostante ciò, adesso, potevo ancora sentire una sensazione, come se nello scenario intorno a me ci fosse qualcosa di sbagliato.
Avevo abbassato lo sguardo per aprire il rubinetto, ma quando lo avevo rialzato non ero più solo: c'era Carter, non più sporco di terra, ma pulito e ben vestito, alle mie spalle che mi guardava irridente dallo specchio.
Non avevo gridato solo perché il fiato mi era mancato.
Prima che potessi persino pensare di aggredirlo, mi aveva passato un braccio saldo come una sbarra di ferro attorno alla vita e con l'altra mano ossuta, dalle unghie lunghissime, mi aveva afferrato i capelli rovesciandomi la testa all'indietro fin quasi a spezzarmi l'osso del collo.
Non aveva detto nulla, si era solo abbassato sulla mia giugulare e aveva ghignato in modo macabro, prima di arricciare il labbro superiore sui suoi lunghi rasoi; la luce allora aveva del tutto ceduto, lasciandoci nel buio.
A quel punto mi ero davvero svegliato.  

NIGHTCREEPERS-i camminatori del buioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora