CAPITOLO 16- Morte

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Quel giorno non avevo chiuso occhio.
Ero rimasto impietrito nel buio, con gli occhi spalancati, nel silenzio più totale, con,come unica compagnia, il mio respiro irregolare e le emozioni che provenivano dal mondo al di fuori della finestra, che mi attraversavano rapide e incostanti come le onde del mare.
Non era stato Carter.
La frase continuava a rotearmi come un mantra nella mente, rifiutandosi di scomparire, facendomi diventare matto.
Avevo voglia di picchiare i pugni al muro, di rompere tutto. Se non fossi stato indebolito dall'infezione, probabilmente lo avrei fatto.
"Perché?" Avevo urlato a un certo punto. "PERCHE'? Perché non me l'hai detto? Bastardo!"
Speravo, in fondo al cuore, che quello sfogo avrebbe raggiunto Carter, svegliandolo di colpo, facendogli picchiare quella zucca vuota contro il coperchio di pietra.
Che voglia di ucciderlo... le mani mi tremavano dall'ira.
Stavo morendo. Presto, se non mi fossi ucciso, sarei diventato un relitto, come Raglan, se non peggio... e l'assassino di Noel ancora girava impunito.
Che cosa potevo fare?
'La tua unica opzione' mi aveva suggerito Carter, più volte.
"Non se ne parla!" Avevo negato ad alta voce, scacciando l'idea.
Ma allora? Cos'altro diavolo potevo fare?
Mi ero alzato, trascinandomi con fatica in bagno, dove, sulla mensola davanti allo specchio, mi aspettava da tempo un affilatissimo paio di forbici. L'avevo preparato nell'ipotesi del suicidio, e avevo già tentato di usarle, rinunciando sempre per il terrore all'ultimo momento.
Le avevo raccolte, soppesandole per qualche secondo, portandomele poi di scatto alla gola, sogghignando con gusto davanti all'immagine della rabbia di Carter,quando lo sarebbe venuto a sapere.
Avrebbe dovuto rinunciare al suo agognato banchetto, sempre che non si fosse rassegnato a bere il sangue coagulato di un morto. Non dovevo fare altro che premerle, affondarle...
Ero rimasto in quella posizione per alcuni minuti, facendomi beffe immaginarie del vampiro, fissando con cupo incantamento quelle lame puntate alla mia trachea.
Solo un piccolo colpo, e sarebbe finito tutto... avevo sbuffato, posandole nel lavandino, sfregandomi le dita sugli occhi.
Non potevo. Non dopo quello che mi aveva detto. Che Carter fosse maledetto!
Era riuscito a insinuarmi il tarlo del dubbio. Non avevo idea di che cosa fare, ero perso, disperato, e intanto il virus nelle mie vene lavorava.
Avevo inspirato profondamente, usando tutte le mie forze per riflettere : avevo zoppicato, barcollando con le ginocchia malferme, fino a una delle poche finestre dell'appartamento, guardando con aria afflitta il tramonto.
Presto Carter si sarebbe destato e sarebbe venuto a cercarmi, e io non sapevo proprio cosa dirgli.
Sconsolato, avevo spostato lo sguardo verso sinistra, incontrando in lontananza, dopo tanto tempo, una figura ben nota: quella del mare.
Stupito, ero rimasto immobile ad osservarla per qualche minuto. La conoscevo bene, quella era la spiaggia dove io e Noel avevamo passato diversi pomeriggi, da bambini.
Da allora, tuttavia, non ci avevo più messo piede, e l'avevo completamente dimenticata, come se l'avessi relegata in un angolo segreto della mia testa, cancellandola dai miei ricordi.
Ero rimasto a fissarla, riuscendo chiaramente a distinguere, pur se in modo non netto, e grazie comunque alle mie nuove capacità, il lento modo delle onde, che andavano a infrangersi mollemente contro il muro di sabbia, incapace di distogliere l'attenzione.
Avevo fatto una pausa di due secondi netti, in cui avevo valutato bene le mie possibilità: avrei potuto raggiungerla tranquillamente in macchina, senza eccessivo sforzo, e poi, se anche fossi morto, sarei stato in un luogo migliore di quello in cui mi trovavo adesso.
Annuendo, deciso, avevo strisciato i piedi fino al cassettone dell'ingresso, prendendo le chiavi della Land Rover e gettandomi di fretta il cappotto sulle spalle: se Carter davvero voleva il mio sangue, quella notte, avrebbe dovuto faticare un po' prima di ottenerlo.

Avevo guidato con calma e attenzione fino a raggiungere il lungomare.
Non era stato difficile: dopo un iniziale smarrimento, la strada si era delineata netta nel mio cervello, riaffiorando dagli abissi della memoria, e in pochi minuti avevo raggiunto il mio obiettivo.
Così, adesso, seduto nella semioscurità, ascoltavo le onde che si infrangevano sulla riva del litorale.
Avevo dimenticato quell'odore, quella sensazione, tanti ricordi riaffioravano nella mia mente.
Sembravano passati così tanti anni da quando io e Noel eravamo venuti qui, per la prima volta, insieme.
Un tremito mi aveva attraversato le membra, mentre le emozioni dei tempi andati mi investivano come un treno.
C'era stata una volta, in cui non ero stato così... c'era stato un tempo in cui ero stato in grado di sorridere, in cui io e Noel non eravamo poi tanto diversi.
Da bambini, eravamo più che simili, non solo nell'aspetto, in tutto. Spesso ci scambiavano per gemelli, e ci indicavano inteneriti per la strada.
Non so quando avesse smesso di essere così, ma un giorno il sorriso era svanito per sempre dalla mia faccia.
Essendo il maggiore, ero diventato adolescente prima di Noel, ed avevo avuto per primo l'impatto con il duro mondo esterno. Era stato devastante: qualcosa dentro di me si era rotto, e, da che ne avevo memoria, il mio spirito era sempre stato cupo e malinconico.
Nonostante questo, per mio fratello Noel non era stato lo stesso: era aperto, divertente, pieno di calore e mai infelice. Viveva ogni giorno con energia e ottimismo.
Io, invece, sembravo essere il suo alter ego: silenzioso, inquieto, incapace di esprimere i miei sentimenti, cosa che mi riusciva solamente attraverso lo studio della pittura.
Ero quasi sempre solo, nella mia stanza o in giro, con in mano libri, pennelli o il computer. Non volevo essere toccato da nessuno, avevo troppa paura di essere ferito.
I miei genitori questo non l'avevano mai capito, così come non lo aveva mai capito nessun altro, tranne Noel.
A dispetto della mia chiusura d'animo, ero un ipersensibile: quando gioivo, ero al settimo cielo, e quando soffrivo, ero nel baratro più cupo di tutti. Noel questo lo comprendeva, e diceva sempre, quasi in mia difesa, che non vedevo dove guardavano tutti, ma sentivo più di chiunque altro.
Forse era anche da questo che derivava la mia empatia, comunque, tra me e Noel non c'era mai stata competizione. Mio fratello per me era tutto quello che avrei voluto essere e che non sarei stato diventato, mentre io, incredibilmente, ero per lui una specie di artista incompreso.
Credo che Noel invidiasse la mia sensibilità, che mi rendeva isolato e distaccato dagli altri ragazzi, meno mesti e più spensierati, proprio come lo era lui.
Avevo espirato, buttandomi all'indietro e sdraiandomi supino, annusando l'aria marittima a pieni polmoni.
"Noel" avevo mormorato, sentendo ancora una volta la sua mancanza. "Che cosa devo fare?" Avevo stretto gli occhi, sapendo che non avrebbe risposto, ma non potendo reprimere il desiderio di averlo vicino.
Avevo bisogno di aiuto. Ne avevo bisogno davvero. Volevo solo che qualcuno mi dicesse che cosa avrei dovuto fare.
Con un certo sforzo, mi era tirato su a sedere, guardando il sole che spariva dietro l'orizzonte.
Se fossi diventato un vampiro, non lo avrei mai più rivisto. Avrei vissuto per sempre nel buio della notte.
D'altro canto, se invece fossi morto... tutto sarebbe finito. Noel non sarebbe più risorto, io nemmeno, e la nostra famiglia si sarebbe estinta per sempre.
Nessuno ci avrebbe mai vendicato. Nessuno avrebbe saputo.
Potevo lasciare il mondo permettendo che accadesse?
Con quella domanda scritta nel cuore, avevo scrutato le acque, cercando la risposta, aspettando un segno che mi indicasse la via.
Ad un certo punto, avevo udito la voce di mio fratello chiara nella mia mente: doveva essere un'allucinazione, sicuramente non poteva essere reale, ma mi aveva fornito la risposta.
Era sorprendente, ma di colpo, tutto appariva semplice ed evidente.
Adesso sapevo che cosa dovevo fare.

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