Il Calvario - Capitolo I

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L'Alfa Romeo della Polizia arrancava come un mulo nell'acchianata che portava al Santissimo Calvario. Quella che doveva essere una strada era in realtà un viottolo stretto stretto, sterrato e pieno di pietre, niche e grandi, e al passaggio dell'auto la polvere si alzava per qualche metro e dentro a quella polvere il tempo si fermava e niente aveva una forma definita: tutto era, niente era. Davanti i due agenti bestemmiavano in modo perpetuo per le buche. Bestemmie impastate di saliva. «Non abbiamo manco soldi per ripararla sta minchia di macchina, se si scassa sono cazzi nostri ispettore... che poi ci rompono i coglioni che pare che la rompiamo noi. Glielo dica poi ai superiori dove cazzo ci fanno andare con la Punto». 

Sul sedile dietro, seduto a destra, c'era Peppe Lo Cicero, ispettore di Polizia in servizio da vent'anni alla sezione anticrimine della Questura di Palermo. Un'ora precisa c'avevano messo per raggiungere Santa Margherita di Belìce, piccolo centro in mezzo alle province di Palermo, Trapani e Agrigento. Avevano percorso la Fondovalle, disseminata di croci e fiori per le persone crepate in quello che era ormai un cimitero, e di autovelox. Antonio Argento, il poliziotto che guidava, quando aveva l'auto civetta si divertiva ad accelerare in prossimità delle cellule fotografiche così da far arrivare sfilze di multe ai colleghi dell'ufficio accanto, che poi dovevano preparare i moduli per farle annullare rompendosi grandemente la minchia. E così fece anche stavolta. 

Arrivati alla grande croce in legno, posizionata al centro, in cima alla salita, Lo Cicero ordinò ad Argento di fermare la macchina. Scese e sparì nella nuvola di polvere che nel frattempo lo aveva raggiunto. Si avvicinò alla croce e si appoggiò alla base della costruzione su cui, c'è scritto in un libro, che il figlio di Dio, citato diverse volte poco prima in auto, fu piantato e lasciato morire. Sarà stata alta almeno cinque metri. Mancava il Cristo; al suo posto, a "x", due lance. Lo Cicero iniziò a vomitare, con conati forti che lo costrinsero ad inginocchiarsi per terra. I due, che prima di vederlo lo sentirono, scesero dall'auto e cercarono di aiutarlo, che aiutare uno che vomita non è mai una cosa bella, e sia Argento, che qualche serata allegra se l'era fatta fino alla settimana prima, che l'altro pivello appena arrivato dalla scuola di Polizia, lo sapevano bene. Era pallido e sudato e lentamente riuscì a rialzarsi. «Tutto a posto ispettore?» chiese Argento. «Sì, sì, tutto a posto. Amuninni, saliamo in macchina, guida, dovrebbe essere la stradina sulla destra». La macchina ripartì e si addentrò in una trazzera peggio di quella di prima, in cui l'erba alta e i rovi continuavano a graffiare l'auto sulle fiancate e sotto ai loro sedili. Il poliziotto nuovo bestemmiò di nuovo. «Basta cu ste bestemmie, ma che minchia dobbiamo fare?» urlò Lo Cicero. I due smisero per qualche secondo anche di respirare dandosi da soli, a ragione, delle teste di minchia. L'ispettore aveva la fama di essere uno alla mano, ma bisognava adeguarsi al suo umore che cambiava in media ogni 5 minuti. Ormai erano arrivati al casolare che gli avevano indicato gli agenti che all'inizio della salita filtravano le auto. 

Era una vecchia casa, semidistrutta dal terremoto che nel 1968 aveva raso al suolo l'intero paese. Dopo il sisma quei ruderi erano stati abbandonati e il nuovo paese era stato ricostruito a valle. Gli edifici diroccati erano stati «espropriati» dai pastori che li avevano resi stalle per il bestiame e caseifici abusivi. Saranno stati pure abusivi, ma il formaggio e la ricotta che facevano loro non c'entrava niente con quelli comprati in negozio. Non si sa se era la lurdìa, il contatto perpetuo con le pecore e con le capre, ma la ricotta calda con il siero che si faceva in quelle case diroccate alle prime ore del mattino non aveva rivali nel mondo. Con tutto il rispetto, chi se ne fotteva se era tutto abusivo? Mai sentito, in zona, di qualcuno che era crepato per una ricotta. L'unico inconveniente, conosciuto ai locali, era che se la mangiavi appena fatta, calda calda, poi dovevi correre a cacare. Tanto che alcuni medici di famiglia l'avevano suggerita a chi faceva fatica a scaricare. 

Nello spiazzo che si apriva oltre le fratte c'era la macchina del becchino e una Fiat Bravo, che Lo Cicero conosceva bene. L'ispettore aprì lo sportello dell'auto e subito gli venne incontro il dottor Pietro Francisci, medico legale e professore dell'Università di Palermo con cui l'ispettore aveva lavorato decine e decine di volte, soprattutto negli anni Ottanta, quando i Palermitani e i Corleonesi si erano scannati come i cani e Francisci e Lo Cicero si incontravano quattro, cinque volte al giorno, sulle scene dei delitti. Erano amici in linea di massima, ma solo perché come cazzo li devi chiamare due che sarebbero stati incapaci di frequentarsi senza un morto squartato in mezzo, senza commentare un assassinio o un'autopsia? Poteva sembrare non una gran cosa, ma la loro amicizia con la morte in mezzo era solida e sincera. Anziché chiedere come andava a casa, si confrontavano su una ammazzatina, su un pirtuso di una pallottola. 

Guerra di MafiaWhere stories live. Discover now