Dopo la lettura di quei vecchi documenti, Lo Cicero sapeva che la risposta all'omicidio di Messina Denaro sarebbe arrivata, a breve, in pochissimo tempo. In guerra non c'è razionalità, c'è istinto di sopravvivenza e sete di vendetta. Alle sette in punto, con largo anticipo rispetto al solito, uscì dal suo appartamento e si diresse verso l'auto parcheggiata poco distante. Arrivò in ufficio così presto che c'era ancora la donna delle pulizie. «Buongiorno signora». «Buongiorno a lei ispettore, come mai così presto? O sono in ritardo io?» chiese sorridendo. «Pensieri, troppi pensieri» rispose Lo Cicero. Andò nel suo ufficio al secondo piano e iniziò a leggere gli ultimi rapporti di polizia sugli affiliati trapanesi, sugli indagati, sui boss di Castelvetrano che stavano al 41 bis. Voleva cercare di disegnare, di prevedere la reazione rabbiosa della cosca in risposta all'assassinio di Messina Denaro. Sfogliava quei rapporti, quelle informative e ogni tanto dava un'occhiata all'archivio digitale della polizia. Per frenare la reazione bisognava rafforzare l'isolamento dei boss in galera, per evitare che partissero ordini per quelli fuori e per far capire loro che ogni reazione fuori si sarebbe riversata su di loro che stavano in galera. Non avrebbero visto manco più la luce del sole, altro che 41 bis.
Ormai erano passate quasi ventiquattro ore dall'omicidio Messina Denaro e nulla accadeva, e l'attesa, paradossalmente, era ancora più pericolosa della reazione. Voleva dire che i Trapanesi non volevano colpire a testa bassa, ma stavano studiando, stavano «arraggiunannu» tra di loro. Non rabbia cieca, ma vendetta chirurgica. Mentre era nella mente dei Trapanesi, il commissario Infantino aprì la porta. «Lo Cicero veni cu mia, al Pagliarelli». «Che è successo ispettore?». «Parlano». L'ispettore prese la fondina dall'attaccapanni e seguì il commissario. Durante il viaggio nessuno disse una parola e il che non prevedeva nulla di buono. Infantino sfogliava un giornale mentre Lo Cicero guardava fuori dal finestrino, l'avvicinarsi dei cancelli gialli del Pagliarelli. All'ingresso c'erano due secondini che aspettavano i poliziotti per accompagnarli. «Questo è l'ispettore Lo Cicero, si occupa con me delle indagini». «Buongiorno ispettore, seguiteci» disse la giovane guardia carceraria. «Dov'è?» chiese Infantino. «In cucina, c'hanno detto di non farlo vedere a nessuno» rispose uno dei due col fiatone a causa del passo affrettato.
La cucina era deserta, e seduto su una sedia di legno in fondo alla stanza c'era un uomo sui cinquant'anni, affiancato da due guardie. Infantino si avvicinò all'orecchio di Lo Cicero. «E' "U dutturi", Calogero Vecchio, ex uomo d'onore di Castelvetrano. Non ha mai detto una parola, è al 41 bis da sei anni, da quando lo hanno acchiappato a Trapani. Dicono che è stato posato, che in carcere non comanda più, ma forse lo fanno solo per dargli aria, per farlo respirare». Giunti di fronte all'uomo, Infantino e Lo Cicero furono fatti accomodare su due sedie avvicinate dalle guardie. «Buongiorno signor Vecchio» disse freddo, quasi indifferente il commissario. «Questo è l'ispettore Lo Cicero». Bluffava. L'ispettore conosceva bene Infantino, e sapeva che stava recitando. Quell'indifferenza era solo tattica. Anche lui doveva essere teso, non capita tutti i giorni di interrogare, anche se fuori dai verbali, un boss del calibro di Vecchio. Certo non era fascino, ma quel vecchio mafioso aveva qualcosa che attirava l'attenzione.
«Buon giorno a tutti e due. Chiariamo, a scanso di equivoci, un punto» disse Vecchio con eloquio forbito e saccente. «Se qualcuno veni a sapiri che stiamo parlando, a mia m'ammazzano entro stasera, e voi dovete guardarvi le spalle ad ogni angolo. E' da sei anni che ca dintra non parlo con nessuno, né con gli sbirri, né con i detenuti. E manco questo di ora deve essere inteso per nessuna ragione come pentimento. Io sono uomo d'onore, ho ammazzato mafiosi e sbirri, senza differenze, senza rimpianti. Vi voglio parlare perché sta per succedere un bordello». «Vecchio non si preoccupi» disse Infantino, facendo segno ai secondini, di andare via. «Noi abbiamo interesse quanto lei a che questo colloquio rimanga tra queste mura». «Commissario, lei lo sa che io qua dentro conto quanto contavo fuori, e che anche se sono al 41 bis, io sacciu cchiu cose di quelle che lei può sapere da quegli infami da quattro soldi che pagate a peso d'oro». Infantino lo sapeva che Calogero Vecchio, seppur acciaccato dall'arresto, era rimasto ai vertici della cosca trapanese, e che se voleva parlare stava accadendo qualche cosa di grosso. «Vecchio, se ha qualcosa da dire la dica!» disse spazientito da tanta retorica il commissario. «Commissario, vogliono farla pagare ai Palermitani. Hanno ammazzato Messina Denaro quelle bestie senza pensare agli affari, all'equilibrio, al patto. Io ero uomo d'onore quando comandava suo padre, Francesco Messina Denaro, uno cu li cugghiuna, un capo assoluto devoto alla famiglia e agli affari. Il figlio era diventato capo dopo la morte di Don Ciccio solo per la stima che noi avevamo nel padre. So, di certo, che dal carcere stanno partendo alcune direttive verso Trapani, so che stanno preparando una cosa grossa. Non so dove, ma gli uomini d'onore delle famiglie di Trapani hanno deciso di fare la guerra ai Palermitani, e lo sa che cosa vuol dire? Vuol dire che oltre a tante teste, qui salteranno equilibri politici, patti e compagnia bella. Commissà, siamo in guerra. Io mi sono riservato di non dare la mia opinione alla cupola, non voglio entrarci in questo massacro. Pare che in mezzo ci sia pure il nipote di Messina Denaro, Peppe Cancemi, un picciotto furbo e capace, ma imprevedibile. Non so se sia proprio lui a comandare, ma certamente non è solo. State attenti però, è incensurato e ha avvocati molto potenti...».
Lo Cicero fissava Vecchio cercando di cogliere ogni piccola emozione, ogni contrazione del viso. Ma il mafioso era gelido, non accennava a nessuna reazione, era composto ed analitico. «E' sicuro di quello che dice?» chiese Infantino. «No dottore, sono sicurissimo. Non si scordi di chi sono io». «Vecchio io non me lo scordo, ma lei perché mi sta dando queste informazioni?». «Commissario, io non sono un infame. Ma sta per scoppiare la guerra, e io fora c'ho la mia famiglia, i miei fratelli, e fino ad ora ho sempre avuto garanzie che nessuno di loro era in pericolo. Ora invece nessuno può assicurarmi che i Palermitani non colpiscano alla cieca. Commissario, dovete fermarli, io bordelli a casa mia, a Trapani, a Castelvetrano non ne voglio, porca miseria nfame!». «Signor Vecchio, io le credo, ma mi raccomando, mi faccia chiamare se sa qualche altra cosa, mi raccomando, in qualsiasi momento». Vecchio annuì, e sottovoce rispose: «Commissario, si ricordi, silenzio, manco una parola su di me».
Al cenno di Infantino le due guardie tornarono nella cucina e portarono via Vecchio, non prima di essersi sorbiti gli avvertimenti del commissario. Solo quando i tre sparirono nel corridoio, Lo Cicero e Infantino uscirono dalla cucina e tornarono, accompagnati dai secondini, all'auto. «E'meglio parlare subito col magistrato. Se questo dice cose vere siamo nella merda. Io chiamo Calabrese». «Commissario, Vecchio diceva...». «Lo Cicero, è il giudice, minchia, deve saperla questa cosa. Oggi farò un rapporto dettagliato di quanto ci ha detto Vecchio e glielo consegnerò di persona, nessuno oltre lui saprà niente. Lo sai che di Calabrese mi fido ciecamente». Lo Cicero annuì senza molta convinzione.
L'auto sfrecciava in mezzo al traffico di Via Ernesto Basile grazie alle sirene, tra i clacson e gli automobilisti che litigavano e si mandavano a fanculo l'uno con l'altro, ora per una manovra azzardata, ora per un freccia non messa. «Lo Cicero, tu che sei un noto pessimista... secondo te che minchia stanno progettando?». «Commissario, questi dal carcere scateneranno l'inferno, e noi non sappiamo da quale minchia di parte guardarci. Non ci resta che aspettare e questo mi fa girare i cabbasisi. Mi sembra di tornare a...». «Non dirlo Lo Cicero, non dirlo» lo interruppe Infantino. «Se succede davvero un'altra guerra questa volta non si fermeranno più, questa volta vorranno ammazzarsi tutti come i cani, e non ci saranno più né equilibri ne uomini sicuri. Questi faranno la guerra civile Lo Cicero, questi sono dei cani, ricordatelo».
Tornarono in commissariato ma lì tutto era fermo. Sembrava davvero che tutti aspettassero il primo morto, la prima ammazzatina. Invece non succedeva niente. Lo Cicero passò la giornata a liberare la scrivania da vecchi procedimenti e inviò alcuni malloppi ad altri uffici per dedicarsi solo ed esclusivamente a quelle indagini. Le ore passavano e l'attesa consumava il tempo. Cercava di preparare una specie rapporto, una panoramica degli indizi, ma da quella minchia di tastiera del computer non usciva niente. Fece alcune chiamate, sentì alcuni investigatori, alcuni colleghi del commissariato e della Questura di Trapani. Anche lì, a dominare era l'attesa. Era quasi sera, e Lo Cicero abbandonò l'ufficio con grande anticipo, frustrato, incazzato. Prese la pizza al taglio sotto il commissariato e si diresse a casa sua. Un'altra giornata di merda contornata da una pizza di merda.

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Guerra di Mafia
Mistero / ThrillerIn un casolare viene ritrovato il corpo martoriato del Capo dei Capi di Cosa Nostra. Un omicidio che fa saltare equilibri e patti, che scatena una nuova, violentissima guerra di mafia. E un ispettore atipico, sociopatico e scorbutico che, per le vie...