A Palermo il clima lentamente si surriscaldava. Ma non quello dell'aria. Quello era di merda tutto l'anno. Erano cominciati cadere un paio di soldati semplici, da una parte e dall'altra. Come ogni guerra, i nemici si stavano studiando dopo gli espluà degli omicidi eccellenti. Il rapporto che i poliziotti avevano messo sul tavolo di Lo Cicero parlava di tre omicidi a Brancaccio e uno alla Vucciria. I tre scanazzati ammazzati nel quartiere in mano ai palermitani i erano dei poveri scassapagghiari, topi d'appartamento e spacciatori sotto la protezione dei boss. Il più giovane aveva 15 anni, il più vecchio 19. Al picciriddu avevano tagliato le mani mentre ancora era vivo, e poi avevano buttato il cadavere a pochi metri dalla caserma dei carabinieri. Ma non lo avevano lanciato. Erano scesi, lo avevano adagiato ed erano ripartiti, senza sgommate e teatrini.
Qualcuno in quei giorni a Palermo non era più tornato a casa, ma nessuno aveva sporto denuncia di scomparsa. Si sapeva, e a Lo Cicero lo diceva il pisciaiolo e il garzone del macellaio. E quelli che non tornavano il giorno dopo vuol dire che non tornavano più. Finivano in pasto ai porci, sotto terra, in una bella vasca all'idromassaggio di acido o in qualche pilastro di cemento delle nuove costruzioni che erano partite alla periferia di Palermo. Ogni omicidio o ogni sparizione Calabrese lo inseriva nel fascicolo «Guerra 3». E non è che quando ammazzano un pesce accussì piccolo uno indaga. Si riuniscono tutti e poi l'indagine si fa tutta assieme. In un paio di giorni il bilancio era arrivato ad una decine di morti ammazzati in tutto, ed erano in vantaggio i palermitani. Qualche giornale locale stava timidamente iniziando a titolare con i numeri dei morti, attipo L'Ora.
Lo Cicero ed Infantino però era da due giorni che erano completamente fermi, più che altro con la testa. Quando Calabrese chiamava, il commissario Infantino cambiava volto. Si capiva subito quando a telefono era Calabrese. «Nessuna novità commissario?». «No dottore, niente...aspettiamo». E che minchia gli doveva dire? "Stiamo indagando pure te"? No, tutto pareva normale. Quello che era surreale era che Infantino non volesse parlare di Calabrese con Lo Cicero. Cambiava subito discorso. Pensava bene Lo Cicero. Il commissario si sentiva tradito, umiliato, violentato. Era indebolito da quanto accaduto. Tra una cosa e l'altra intanto si erano fatte le tre, quando al cellulare di Lo Cicero arrivò una telefonata da un numero anonimo.
«Ispettore? Buongiorno, sono Occhipinti...». Il consulente chiese all'ispettore di raggiungerlo assieme ad Infantino nel suo bunker di Via Strasburgo, in un palazzone sequestrato a cosa nostra che il funzionario aveva acquistato e in cui aveva costruito la sua base. Lì Occhipinti aveva tutti gli uffici della sua agenzia di consulenza giudiziaria. Per scelta etica lavorava solo per l'accusa, non faceva mai perizie di parte. Grazie alla sua attività erano stati inflitti quasi tremila anni di carcere alle associazioni criminali ed erano stati prosciolti innocenti che altrimenti sarebbero finiti in galera per il resto dei loro giorni. Era uno scomodo assai Occhipinti, soprattutto da quando aveva scoperto cose scottanti sulla strage di Capaci e Via D'Amelio. Molti dicono che se le indagini sulla morte di Borsellino le avesse condotte lui oggi l'Italia sarebbe diversa. Aveva scoperto il centro dei servizi segreti sul castello Utveggio smontato in fretta e furia dopo la strage. Aveva identificato chiamate, comunicazioni che tiravano in ballo alcuni uomini dei servizi. Altro che mafiosi. E ora stava pagando per tutto questo. Sapeva troppe cose, e le cose erano due: o lo ammazzavano o lo delegittimavano. Stavano provando con la seconda, inondandolo di fango. Ma lui, stoico, resisteva. Intravaia, seppur richiamato dai colleghi, non ne faceva mai a meno nelle indagini delicate. E ora pare avesse già scoperto qualcosa.
Duecento cinquanta mila euro di scoperto su un fido bancario che all'inizio era di 50mila euro appoggiato ad un conto corrente cointestato con la moglie presso il banco di Sicilia. Garante era il direttore della banca, un uomo chiacchierato assai per le sue amicizie pericolose e ritratto in alcune foto compromettenti finite agli atti del maxi, in cui il professionista era in un locale e alle spalle c'era Michele Greco. Mentre Occhipinti snocciolava ai due i dati scoperti dal suo collega grazie alle indagini patrimoniali, Infantino non staccava gli occhi dal monitor. Forse cercava un errore, una minchiata fatta dal computer. Nell'altra stanza uno dei picciotti di Occhipinti stava bestemmiando al telefono con uno del catasto perché era riluttante a dargli le visure di alcuni beni intestati a Calabrese. Pare che in pochi anni si fosse intestato due appartamenti in via Principe di Belmonte e addirittura un monolocale appena sotto la torre Eiffel a Parigi. Spese che non potevano essere in nessun modo giustificate nemmeno lontanamente, nemmeno dal sostanzioso stipendio da magistrato.
Occhipinti continuava a spiegare soltanto a Lo Cicero. Infantino ormai era in trans. Era in un altro mondo, un microcosmo in cui quelle su Calabrese si rivelavano ipotesi false. Ogni contatto telefonico di Calabrese veniva monitorato in una sala d'ascolto riservatissima della questura che Occhipinti raggiungeva regolarmente in attesa di notizie utili da riferire immediatamente ad Intravaia. Cosa avrebbero fatto non appena avrebbero avuto la certezza? Lo avrebbero fatto arrestare? Che contraccolpo avrebbe avuto questo agli occhi della gente e all'interno della Procura? C'era la guerra di mafia fuori, e questi stavano indagando un magistrato.
Occhipinti teneva il televideo su «Ultim'ora» e uno dei collaboratori ad un certo punto chiamò i tre: «Taliati, ne hanno ammazzato un altro». Alla Noce era stato rinvenuto il corpo di un affiliato. Secondo la prima ricostruzione era stato stordito e messo nella sua macchina che poi era stata incendiata. Era stato bruciato vivo. Tali efferatezze non si ricordavano in nessuna guerra di mafia. Questi si massacravano, si spappolavano.
«Minchia basta» urlò Infantino sbattendo le mani a palmi aperti sul tavolo, rovesciando i due bicchierini di caffè. «Chiamo Calabrese, se non mi firma i mandati di cattura che ha sul tavolo faccio un bordello ora». «Novantanove nomi ci sono sopra, di uomini di tutte e due i clan. Gli faremo terra bruciata, gli faremo sentire che non sono a casa loro e noi stiamo a guardare mentre si scannano. Gli faremo sentire che in questa minchia di terra un pezzo di Stato che funziona c'è, e siamo noi».
In quel momento d'orgoglio Lo Cicero colse tutta l'onestà e l'estremo valore di quell'uomo dello Stato, di quel commissario cresciuto accanto a Cassarà, a Giuliano. Lui voleva riscattare tutto in un colpo cent'anni di collusioni e di ammuccamenti tra lo Stato e la mafia. Lui voleva dimostrare ai mafiosi che non tutti hanno un prezzo e che la Sicilia non è la loro terra. Voleva, in cuor suo, dimostrare a Calabrese che lui era diverso, assai diverso.
![](https://img.wattpad.com/cover/161542223-288-k759073.jpg)
YOU ARE READING
Guerra di Mafia
Mystery / ThrillerIn un casolare viene ritrovato il corpo martoriato del Capo dei Capi di Cosa Nostra. Un omicidio che fa saltare equilibri e patti, che scatena una nuova, violentissima guerra di mafia. E un ispettore atipico, sociopatico e scorbutico che, per le vie...