Capitolo II

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La sveglia del giorno dopo per l'ispettore suonò alle sei. Ma Lo Cicero era sveglio da un pezzo perché, come diceva il giudice Borsellino, «bisognava alzarsi alle cinque per fottere il mondo con due ore di anticipo». Era seduto al tavolo della cucina di fronte ad una tazza di caffè d'orzo che fumava come una ciminiera e stava rileggendo ritagli di giornali, pezzi di libri segnati con l'evidenziatore e alcune ordinanze di fermo accussì vecchie che i fogli ormai erano gialli. Erano stralci conservati ordinatamente che si riferivano alle due guerre di mafia siciliane. Alle due precedenti. Lo Cicero tutte queste cose le teneva gelosamente in due fascicoli separati su cui era scritto semplicemente «I» «II», come se non servissero altre parole. 

La sua mente in quel momento era immersa negli anni Sessanta, quando era agli albori il primo scontro tra le cosche. Ripercorse con la memoria quei giorni in cui lui era un solo un ragazzo. Ricordava bene quella guerra perché anche dopo l'adolescenza suo padre gliel'aveva sempre raccontata, attipo film, attipo romanzo. Era rimasto impressionato dai racconti e dalle immagini dalla strage del 1963. Il 30 giugno del 1963. Quel giorno la tv aveva dato la notizia della strage di Ciaculli, della carneficina di uomini dello Stato da parte di Cosa Nostra. Leggeva in un ritaglio del Giornale di Sicilia conservato dal padre, la ricostruzione fatta dal cronista della nera. Un cristiano aveva chiamato la questura di Palermo segnalando un'auto abbandonata nelle campagne accanto alla statale Gibilrossa-Villabate. La Polizia era giunta immediatamente sul posto assieme ad una squadra di artificieri dell'esercito. Sul sedile posteriore era posizionata una bombola china china di gas, con una miccia bruciacchiata. L'artificiere aveva facilmente disinnescato l'ordigno, ma nel frattempo il tenente Mario Malausa stava per aprire il bagagliaio della macchina per l'ispezione. Bastò che allontanasse i due lembi di lamiera perché si azionasse l'innesco di un enorme carico di tritolo che dilaniò il tenente, i marescialli Silvio Corrao e Calogero Vaccaro, gli appuntati Eugenio Altomare e Mario Fardelli, il maresciallo dell'esercito Pasquale Nuccio e il soldato semplice Giorgio Ciacci. A distanza di quarant'anni non si era ancora capito per chi minchia fosse quella cazzo di bomba. Se per la famiglia mafiosa dei Greco, originari proprio di Ciaculli, o se fosse proprio per Malausa, che a quanto pare era stato l'autore di alcuni rapporti in cui documentava i legami tra mafia e politica locale. Ancora oggi, non si sa niente. Tanto per cambiare, in questa nazione di Pulcinella. 

Lo Cicero era rimasto allibito da quella strage. Della mafia tutto sommato non gliene era mai fegato una minchia, né da piccolo né da grandicello. Ma manco degli sbirri. La sua famiglia era sempre stata a metà, sul crine, senza mai pendere, manco per sbaglio. Non con la mafia, che non li toccava, ma manco con gli sbirri, che volevano sempre fottere i più poveri. Lui da piccolino voleva fare lo sbirro perché non c'era altro da fare, suo padre glielo diceva sempre. A Palermo o facevi lo scassapagghiaro o facevi lo sbirro. O Stato o mafia. Quei brandelli di carne, quella devastazione però aveva acceso in lui qualcosa che lo spingeva a sentire come proprio quel dolore. Crescendo, leggendo di quella strage, riguardando ogni tanto qualche immagine di quel massacro, era diventata una ossessione. Era entrato in Polizia, e col diploma di ragioniere, dopo due concorsi, era riuscito a diventare ispettore di Polizia. Giovanissimo, già ispettore, perché era in gamba, era sveglio Peppe, ed era uno che non si risparmiava mai, mai, minchia, nemmeno per la più stupida delle indagini. 

Era stato proprio dopo l'ammazzatina di Ciaculli che era esplosa la prima guerra di mafia, che vedeva contrapposti la famiglia dei Greco e i Corleonesi di Luciano Liggio da una parte e i fratelli La Barbera appoggiati dagli altri Palermitani dall'altra parte della barricata. Pare che in realtà la guerra fosse scoppiata quando nel febbraio del 1962, i fratelli Angelo e Salvatore La Barbera, insieme ai Greco, si erano uniti in una joint venture per finanziare una spedizione di eroina dall'Egitto verso l'America passando per la Sicilia. A controllare la merce non appena ebbe toccato suolo siculo fu spedito Calcedonio Di Pisa, uomo d'onore rappresentante della famiglia della Noce, a verificare che la merce fosse imbarcata senza alcun problema per New York sul transatlantico Saturnia. Quando però il carico di droga giunse a Brooklyn, i mafiosi d'oltre oceano si resero conto che la quantità ricevuta era inferiore e che una parte sostanziosa della droga non era stata recapitata. Interrogarono pure il cameriere del Saturnia che curava il carico a mo di legnate amare come il veleno, ma non si seppe nulla. L'indiziato numero uno fu proprio Di Pisa. Quando la Commissione «assolse» Di Pisa dall'infamante accusa, i fratelli La Barbera si ribellarono e promisero vendetta a quel cornuto che gli aveva fatto perdere la faccia con i cugini americani. 

Guerra di MafiaWhere stories live. Discover now