Capitolo X

5 0 0
                                        

Il puzzo di pecorume arrivava forte dentro il casolare. Oltre il muro della stanza dove erano riuniti gli uomini d'onore c'era un grosso focolare acceso per terra. Un cerchio largo circa un metro e mezzo, circondato da mattoni di tufo su sui erano poggiate due sbarre di ferro che servivano per tenere sollevata sulla brace una grande pentola, un quadaruni, in cui stava bollendo carne di pecora, condita solo con limone sale e foglie d'alloro. Un pecoraio del posto, un uomo di fiducia, stava cucinando l'animale e di tanto in tanto rimescolava. Il tanfo di pecora era notevole, ma era sintomo di freschezza, di bontà della carne. In cucina c'era un cristiano che preparava i sanguinacci, le interiora della pecora riempiti col sangue raccolto dallo scannamento che dopo essere cotti vengono tagliato a fettine, a metà tra il dolce e il salato. Era il cibo degli dei, degli uomini veri.  «Le massime aspirazioni dei siciliani sono tre: mangiare carne, cavalcare carne, comandare carne» diceva Angelo Nicosia, vecchio presidente della commissione parlamentare antimafia. E avia ragione. I siciliani sono il popolo più carnivoro, se gli levi la carne si mangiano tra di loro. 

Di là gli uomini d'onore discutevano, e di tanto in tanto entrava qualche soldato semplice a portare i caffè. I mafiosi di Santa Margherita erano seduti tutti dallo stesso lato del tavolo. Stavano spiegando agli altri boss di essere i più incazzati, perché a Messina Denaro lo avevano scannato nel loro territorio, violando i confini. Cercavano quasi di discolparsi. Gli altri ascoltavano e annuivano, apparentemente convinti e solidali con quei cristiani. Poco dopo fecero il loro ingresso nella stanza i pecorai improvvisati cuochi, sapienti nell'arte della carne ma che fetevano in un modo spropositato. 

«Scusateci se ci permettiamo di entrare. Volevamo solo dirvi che siamo pronti e quando volete vi serviamo da mangiare». Giuseppe Cancemi, nipote trentenne di Matteo Messina Denaro, figlio della sorella, chiese se si poteva sospendere la riunione per dedicarsi alla pecora e nessuno obiettò. La carne fu messa in tre grandi piatti e contornata da patate bollite. Ora il tanfo non c'era più, c'era il gusto forte della carne ovina. 

«Chissa è pecura speciale, scelta e curata per voi» si premurava l'uomo mentre stringeva la sua coppola tra le mani. I boss si passavano il vassoio di mano in mano prendendosi due, tre pezzi di tenerissima carne ovina. L'altro pecoraio portò alla tavolata i sanguinacci e due caraffe di vino rosso di casa. «Chisso è un pranzo da nobili, vino eccezionale, sugnu senza parole... grazie a don Peppe e puru a li picurari» disse Tano Vaccaro, capo della famiglia di Sambuca, proponendo un brindisi a «questa bella tavolata». 

Non rimase niente. Né della pecora, né dei sanguinacci, né del vino. I boss erano seduti con la panza all'aria, primo bottone mollato, a compiacersi per la mangiata. La tensione del summit era scemata. Due uomini portavano le tazze col caffè e ora sulla tavola troneggiava un enorme vassoio di cannoli. Niente ci stava più nella pancia, ma i cannoli non si possono rifiutare, e ognuno di loro ne prese chi uno, chi due. Il pecoraio si avvicinò al giovane Cancemi e lo guardò. Lui gli fece un leggero cenno col capo e subito l'uomo usci verso la cucina. 

Erano tutti rilassati, scomposti, tranne il giovane mafioso. Era come se aspettasse, con la braccia aperte poggiate sulla tavola. Giocava torturandosi il pollice con l'indice e aspettava, con un mezzo sorriso, con un ghigno appizzato alla bocca. Dalla porta di fronte a lui, comparirono quattro uomini che prima non si erano visti, né avevano mangiato con loro. Quelli che erano seduti di fronte a don Peppe manco si accorsero che si era aperta la porta. Loro silenziosi scivolarono dietro i quattro della famiglia di Santa Margherita e gli misero un filo di plastica attorno al collo. I quattro cominciarono a calciare e dimenarsi, ribaltando la tavola, facendo cadere tutto per terra, ma non riuscivano a liberarsi dall'abbraccio mortale dei quattro che gli stavano dietro e li tenevano incollati alle sedie. Due, tre minuti. Poi anche l'ultimo cessò di muoversi e finirono anche gli spasmi involontari. Fu allora che don Peppe Cancemi si alzò dalla sua sedia, prese la pistola, una automatica che gli diede uno dei sicari e andò alle spalle dei morti. La appoggiò alla nuca di ognuno e fece fuoco, facendo sì che il sangue inzivasse la tavola perfettamente bianca, sporca solo di vino. Nessuno dei presenti osò sollevare lo sguardo, o muovere un muscolo che fosse uno. Erano tutti mezzi morti, cacati addosso come mai in vita loro. Al cenno della sua testa lo stesso pecoraio che era andato a chiamare i sicari iniziò a trascinare i cadaveri tenendoli da sotto le ascelle, verso il focolare, dove, a poche decine di metri c'era il recinto dei porci. Don Peppe non disse nulla: non serviva. Si pulì la mano con cui aveva sparato e tornò al suo posto. 

«Ora possiamo continuare a mangiare i dolci» sibilò sorridendo. Gli altri uomini erano sconvolti, quasi trattenevano il respiro. Don Peppe aveva ammazzato quattro cristiani, quattro fratelli perché aveva il sospetto che pendessero verso Palermo. Che avessero tradito. Solo il sospetto, che era bastato però a fargli saltare il cervello. Mentre pochi ora mangiavano i dolcetti di mandorla e i cannoli, dalla porta si vedeva il pecoraio che spogliava gli scannati, li buttava al di là del recinto e poi lanciava sul focolare i vestiti. Il sangue che sgorgava dal pirtuso della nuca attirò subito i porci che dall'altra parte del recinto si lanciarono sui cadaveri. Erano eccitatissimi, continuavano a grugnire e a strappare pezzi di carne. In un oretta in teoria sarebbero rimaste solo le ossa, che i pecorai avrebbero sciolto nei fusti di acido presenti nella stalla accanto. In quella del summit, invece, qualcuno alzava ogni tanto lo sguardo ma lo spettacolo era raccapricciante. 

«Con il vostro permesso io mi alzo» disse Peppe poggiando le mani sulla tavola. Tutti gli altri si alzarono, e lui ebbe bisogno solo di dire «Non c'è altro da aggiungere, ci siamo capiti». Lentamente tutti i mafiosi uscirono dal casolare e salirono sulle loro auto, che, ad intervalli regolari, presero il viottolo e lasciarono la campagna. Rimasero solo i pecorai, a mettere a posto e a pulire, e i porci, che facevano giungere i grugniti fino alle macchina in attesa di partire, salutando i commensali in modo inquietante. Quei quattro cristiani fino a poco prima mangiavano con loro, respiravano nsemmula a iddi, e ora erano con la faccia nel fango, mentre dei maiali strappavano, lentamente, la loro carne. Ora tutti sapevano chi comandava e tutti sapevano come finiva chi non era fedele.

Guerra di MafiaWhere stories live. Discover now