Capitolo 2

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Avevo la schiena poggiata contro la pelle del mio divanetto nello studio, posto all'ultimo piano di quell'enorme edificio immerso nel più totale turismo urbano e parigino.
Le lancette dell'orologio da polso che indossavo, segnavano le quattordici e tredici del pomeriggio ed io avevo messo piede tra queste mura la mattina dello scorso giovedì alle dieci e tre minuti , senza essere poi tornata a casa nella notte.
Desideravo spogliarmi dei miei indumenti solamente per la gioia di potermi immergere dentro la vasca e lavare via dal mio corpo, tutta la pesantezza della notte che era appena trascorsa.
Gli stilisti da oltre oceano, erano da sempre stati quelli capaci a stravolgere  la calma tipica del mio posto di lavoro.
I miei impegni, minuziosamente organizzati, passavano in secondo piano e gli articoli di giornale su cui le mie mani, la mia vista e la mia mente, dovevano lavorare, non erano mai perfetti  come amavo che fossero perché circa venti di loro, tutti insieme quasi fossero in gita scolastica, rendevano i miei collaboratori delle mine impazzite o peggio ancora degli ordigni sul punto di esplodere.
Però, questi stessi stilisti mi ricordavano ancora una volta perché avessi scelto il giornalismo della moda, perché proprio Vogue.
«lo bevi o no quel caffe?»l solito Francois e la solita simpatica voce ad infastidire questa apparente calma
«tieni »glielo porsi direttamente non appena lo vidi entrare nel mio studio.
Sarebbe strano dire che fossimo quasi migliori amici, questo perché storicamente nessuno è disposto a credere che ci possa essere della sana amicizia tra uomo e donna, o se ci fosse era dato per scontato che l'uomo fosse necessariamente gay.
La cultura di massa,la odiavo.
Era tipica di Grenoble e per questo e per molto altro ero andata via da li.
«nottata pesante?»gli indicai la quantità enorme di articoli che mi circondavano su quel divanetto, e i fogli di carta bianca macchiata qua e la di inchiostro accartocciati a palline che non riuscivano più ad essere contenuti dal cestino,finendo cosi per terra e creando confusione, come quella che regnava nella mia mente.
«sicura di saper tornare a casa?» mi domandò scrutando bene il mio volto stanco e insonne ed  a pensarci bene io tanto sicura non lo ero, dal momento che iniziavo a sentire della pesantezza ai vertici del mio corpo ma, avrei necessariamente tenuto duro perché era sabato e non mi capitava di avere un sabato libero da almeno otto mesi.
Lo salutai, lasciandolo alla sua giornata lavorativa appena iniziata, mentre mi recai all'appendi abiti per  indossare quella lunga pelliccia ecologica con la quale ieri mattina avevo varcato le porte di questo edificio.
Per i direttori generali il concetto di "reperibilità" prescindeva da una questione lavorativa.
«torna a casa?» la voce della mia stagista mi colse di sorpresa.
Per loro i turni erano decisamente più massacranti, e lo ricordavo bene perché era uno step a cui tutti eravamo prima o poi stati sottoposti.
«si» le risposi mentre vidi chiaramente come tra le mani tenesse aperta la pagina di un documento che avrei riconosciuto tra mille.
«posso chiederle una cosa?»apprezzai la sua tenacia e per questo mi accomodai sulla comoda sedia nera e le porsi la mano facendo si che vi posasse sopra quell'articolo della rivista di moda.
Non era per me una novità, confrontarmi con lavori di colleghi , alcuni dei quali conoscevo personalmente e con cui avevo avuto l'immenso onore di lavorare.
«cosa vuoi da me, mrs Furlan» le chiesi schietta mentre il suo torturarsi le mani mi fece capire immediatamente come avesse il cuore combattuto.
Julie, era arrivata in Francia, qui a Vogue, solamente due anni fa grazie al fatto che avesse vinto un importante borsa di studio.
Aveva frequentato il primo anno in Austria, essendo anche più vicino a casa sua, dato che fosse friuliana, ma un giorno di fine Marzo ero stata invitata a tenere una lezione sui media e la comunicazione, in quella che era stata la sua vecchia università di giornalismo e l'avevo vista in terza fila, mentre le sue mani scrivevano velocemente appunti ai margini di un libro di moda che non avevo più visto a nessuno.
Ad essere onesti era stato il libro a suscitare in me un notevole interesse e per questo avevo chiesto informazioni al rettore e poi, le avevo proposto di unirsi a me , senza pretese ovviamente ,e lei aveva accettato immediatamente.
«ho lavorato su questo artista, può dargli una controllata?» finalmente riusci a tirar fuori il suo lavoro e lo accettai.
«mi serve del tempo» misi in chiaro la situazione
«tutto quello che le serve» cosi, afferrai la mia borsa e uscii fuori, stringendo quel plico di fogli rilegati ordinatamente.
Gli occhiali da sole proteggevano le mie pupille ,nonostante questo non fosse fortemente accecante.
L'odore della fine pioggia parigina,investì le mie narici riportandomi alle mie origini...quelle che purtroppo ero stata costretta a lasciar via,troppo lontani per i miei sogni.
Grenoble mi era sempre stata stretta, per me che avevo da sempre avuto sogni cosi grandi da non riuscire neppure ad entrare dentro i cassetti.
Quando salii sulla mia macchina, allacciando la cintura e accendendo il motore della vettura con quel suo tipico rombo a riempire di rumore dell'abitacolo, guardai dietro dagli specchietti retrovisori e mi apprestai a fare retro marcia, immettendomi subito dopo nel traffico, pronta a recarmi a casa.
Il mio appartamento al quinto piano in XVI La Muette, a meno di trecento metri dalla metropolitana La Muette e a quattrocento metri dalla Grande Epicerie Rive droite, era da sempre stato un posto in cui avevo ritrovato me stessa anche nelle giornate peggiori.
In questa stessa casa ero diventata madre e sempre nella stessa avevo avuto paura di non saper essere sufficientemente brava da potermi permettere il lusso di avere una vita tra le mani, la vita di mio figlio.
Quando varcai il portone del palazzo, incrociai nuovamente quel ragazzo della settimana scorsa; era da un paio di giorni che lo vedevo con maggiore assiduità e allora avevo dedotto che fosse il fidanzato di Veronique, cosa tra l'altro davvero storica se consideravo il fatto che di ragazzi da quella casa ne avevo visti passare molti.
Non la giudicavo per questo, anche perche era ancora una gran bella e giovane ragazza la cui vita doveva apparire come un cesto di popcorn salati al burro, pronti per essere divorati difronte a quella che speravo per lei fosse più una commedia che una tragedia.
«sta attento,che diamine!» gli dissi per la seconda volta nell'arco di pochi minuti non appena svogliatamente mi venne nuovamente contro, a momenti facendomi capitombolare per terra.
Sembrava vivesse con la testa tra le nuvole,anzi in realtà sembrava vivesse con la testa sullo schermo del suo cellulare.
Mi guardò, cercando di capire dove già mi avesse visto altre volte e quando sembrò ricordarsi del mio volto, mi sorrise.
Io però,stavo ancora pensando al fatto che avesse le sue manacce ferme e salde sui miei fianchi, zona che non permettevo più a nessuno di toccare da quando avevo divorziato con Pierre.
In un gesto automatico le tirai via di lì ma a lui non sembrò importare molto a parte l'avermi squadrata da capo a piedi come se stesse per farmi una radiografia scannerizzata.
«Federico» si presentò porgendomi la sua grande mano dalla quale, dall'orlo della felpa che indossava si poteva intravedere qualche pezzo di tatuaggi.
«Charlotte» mi presentai a mia volta,mantenendo quella decente educazione che i miei genitori mi avevano impartito fin da piccola.
«lei deve essere la vicina di casa di Veronica» capii unicamente Veronica e nel dubbio di cosa mi avesse chiesto, rimasi impassibile.
«giusto, non parla l'italiano» si grattò la nuca provando forse a ricordare qualcosa e mi divertii parecchio nel fingere di non capire l'italiano cosa che per altro aveva dedotto autonomamente senza che io alla fin dei conti avessi manifestato.
«ehm...vous etes le vicin de Veronica?» non riuscii a trattenere le risa.
Che diamine aveva appena detto?
Non ricordai nessun altro ,incontrato nella mia vita ,che avesse una cosi scarsa conoscenza del francese ne tanto meno che avesse una cosi pessima pronuncia.
«pardon» mi scusai provando a ricompormi ma lui non apparve per nulla offeso dalle mie risa.
« Oui, c'est moi» annui aiutandolo nel capire che stessi confermando le sue supposizioni mentre slegai i miei lunghi capelli mori, stanca di sentirli legati in una stretta coda.
Essi, vaporosi come erano da sempre stati, finirono per incorniciarmi il volto e le spalle fin sotto il seno; l'umidità della pioggia fine aveva inoltre fatto si che si riappropriassero delle loro onde naturali quelle che spesso toglievo via con la piastra perché facevano si che il mio volto sembrasse ancora eccessivamente giovane.
Pigiai sul bottone per chiamare l'ascensore e non seppi perché se ne stesse li a guardarmi le spalle mentre attendevo che quel benedetto arnese arrivasse al piano zero e mi portasse poi a casa mia, dove avevo necessità di scendere da questo paio infernale di tacchi a spillo, che mi ostinavo a portare tutti i giorni.
Quando mi infilai dentro, premetti automaticamente sul tasto numero cinque e mi guardai distrattamente allo specchio dell'ascensore quasi non riconoscendomi più.
In quell'immagine riflessa c'era troppo di una me che avevo voluto esiliare in un passato che a tratti detestavo e a tratti a volte volevo avere indietro.
Quando infilai le chiavi nella toppa della porta blindata, venni poi subito dopo avvolta dall'odore di vaniglia del deodorante per ambienti che avevo piazzato in ogni angolo possibile della casa.
Scesi immediatamente dai tacchi e infilai le mie amate pantofole, lasciate ai margini del pavimento, giusto subito dopo l'ingresso.
A casa avevo il parquet di legno e camminarci con le scarpe e rischiare di rovinarlo non era proprio nei pieni piani, per una come me che teneva maniacalmente alla perfezione e all'ordine.
Mi spogliai salendo le scale, giungendo alla vasca da bagno con praticamente solamente l'intimo addosso; i riscaldamenti accessi conferivano allo spazio un calore che si adagiava morbidamente sulla mia pelle e nell'attesa che la vasca da bagno, di porcellana bianco candido, si riempisse di acqua calda nella quale avevo versato degli oli profumati, mi recai nella camera da letto a prendere dell'intimo pulito e la mia inseparabile vestaglietta di seta nera.
Accesi lo stereo lasciando che la voce dolce di Edith Piaf si diffondesse tra le pareti, mentre le mie corde vocali vibravano leggermente accompagnando , seppure in maniera poco intonata , le note della canzone.
Quando immersi il mio corpo, all'interno di quella nuvola di sapone, sentii ogni terminazione nervosa del mio corpo rilassarsi al tocco leggiadro dell'acqua calda.
Appoggiai la mia schiena nuda al bordo della vasca, poggiando sui miei occhi chiusi i dischetti di cotone imbevuti dall'acido ialuronico perfetto per mantenere la mia pelle perfetta e curata.
Facevo particolare attenzione al mio aspetto fisico, ma questa non era una ossessione più semplicemente mi piaceva sapere che fossi ancora una bella donna capace di suscitare dell'interesse, benché ovviamente poi avessi poco tempo da dedicare a delle relazioni che non fossero comunemente conosciute come "relazioni occasionali".
Da quando avevo iniziato a vivere fuori da casa dei miei genitori, lontana da loro e dai miei due fratelli più piccoli, ero cambiata o forse solamente ero finalmente riuscita ad esprimere me stessa senza paura di essere considerata una visionaria futurista o anche peggio una poco di buono.
Mi era sempre piaciuto avere una casa curata nei dettagli, pitturata con toni caldi ma moderni, il camino accesso tutti i giorni d'inverno, la coperta scozzese bianca e azzurra acquistata a Sankt Moritz, in coordinamento con la tappezzeria azzurro pastello dei miei divani del salotto, posta sul bracciolo ,li a portata d'uso.
Il porta cioccolatini colmo di praline al cocco, il mio preferito e qualche macaron incartato, comprato la domenica mattina alla Laduree sulla sedicesima rue Royale, in quella caffetteria e dolceria nella quale ero solita prendere una tazza di tea francese accompagnata con un piccolo pasticcino ai frutti di bosco.
Mia madre non avrebbe mai capito il mio stile di vita, perché lontano da quello a cui lei da piccola aveva cercato in tutti i modi di abituarmi , lo stesso identico modo con cui lei era cresciuta e per questo non era mai voluta venire a Parigi, nemmeno una volta in questi ultimi dodici anni e mio figlio Alan, l'aveva visto poche volte, però mi puntava sempre il dito contro ma io mi spostavo e andavo avanti.
Smisi si pensare alla mia famiglia, evitando che il mio sabato pomeriggio fosse rovinato da un burrascoso acquazzone sentimentale e mi dedicai piuttosto a massaggiare la mia pelle e le mie gambe.
Quando uscii fuori dalla vasca, mi coprii con un telo di spugna bianca ,allacciai i miei capelli in turbante sulla testa e mentre ero china ad afferrare il phono dal mobiletto sotto il lavandino, sentii il citofono suonare.
Mi stranì parecchio, perché gli unici con cui uscivo e che di conseguenza si recavano a casa mia, erano Francoise e sua moglie Angeline, entrambi colleghi ed entrambi a lavoro.
Guardai dall'occhiello della porta, prima di aprirla, ed il volto di quel solito ragazzo mi si palesò facendomi alzare gli occhi al cielo.
Non seppi con certezza perche il mio istinto piuttosto che fermarmi dall'aprire la porta,al contrario mi ci spinse contro e perciò afferrai la maniglia abbassandola con la mano sinistra, mentre con la destra tenevo stretti i due lembi del telo che copriva il mio corpo ancora umido dall'acqua del bagno.
«ti serve qualcosa?» gli dissi stupendolo con il mio italiano scolastico
«io...io» mi guardò ancora, forse provocandomi del leggero fastidio ma non molto.
«tu?» insistetti
«ho sbagliato porta» lo guardai inarcando un sopracciglio.
Faceva avanti e indietro da quell'appartamento almeno tre volte a settimana e davvero pensava che io credessi ad un balla simile?
Mi chiusi la porta alle spalle, lasciandolo dietro di essa a boccheggiare per il mio inaspettato infastidimento e quando lo guardai nuovamente dallo spioncino, lo trovai ancora li a passarsi le mani su quel capo coperto da una capigliatura corta e bionda.
"Federico" mi ripetei in mente quel nome, come se fosse rimasto in qualche modo incastrato tra un pensiero e l'altro.
Il rumore del phono rilassò le mie spalle e riscaldò la mia pelle intorpidendola, mentre i miei piedi nudi ,dentro quel paio di ciabatte da camera,erano ben piantati sul pavimento a reggermi in piedi.
Pensai al pranzo che avrei dovuto fare, immaginando a qualcosa di veloce che mi piacesse oltre ogni dire, la sola idea di mangiare una tartina con formaggio spalmabile e miele d'api, mi fece venire l'acquolina in bocca e brontolare la pancia , per questo non appena finii di sistemare il casino del bagno, corsi velocemente davanti il frigorifero a pescare fuori tutto ciò che mi serviva.
Erano rari i momenti in cui andassi a fare la spesa e per questo in genere mi affidavo ciecamente alla guida più che ottima della mia amica Josephine, una carissima compositrice di quarantuno anni la cui vita era divisa tra fogli di carta macchiati di inchiostro e croccantini per gatti, i suoi e quelli dei vicini, come se quelle palle pelose potessero essere l'unica fonte di gioia nella sua vita.
Viveva alcuni mesi a Roma, a detta sua erano dei periodi molto importanti per la sua arte e sebbene stentassi molto a capirne il senso logico, la assecondavo comunque, raccomandandole sempre di fare molta attenzione alla sua miopia che sapevo per certo che a lungo andare l'avrebbe costretta a sottoporsi ad un intervento, nonostante di testa mia le prendessi delle prenotazioni per farle passare delle visite periodiche.
Josephine non conosceva limiti, scriveva note su fogli di spartiti sia di notte che di giorno, con la luce de sole e con quella della lampada da scrivania che si era comprata a Le Roi Merlin circa una quindicina di anni fa e da allora non l'aveva mai cambiata.
In casa sua c'avevo messo piede tre o quattro volte da quando avevamo fatto amicizia e questo perché gli animali per quanto belli potessero essere, cozzavano troppo con il genere di vita che conducevo io.
A prescindere dal fatto che non avrei avuto nemmeno il tempo materiale per dedicare loro le cure e le attenzioni di cui ero cosciente avessero bisogno ma, la sola idea che le superfici della mia casa venissero a contatto con bava e pelo di animale, mi spingeva a chiamare la migliore delle aziende di disinfestazione.
Mentre ero seduta sulla mia solita e comoda sedia del tavolo della cucina, l'arrivo di una notifica mi fece distrarre: " Cristian De Gouille".
Sorrisi all'idea che l'avvocato divorzista, con cui ho in corso una brevissima storia occasionale, mi stia telefonando proprio nel giorno in cui sono a casa, quasi sapesse quanto e come farsi sentire.
« halo» risposi al terzo squillo
« halo mon cheri» strinsi un labbro,consapevole che quando la chiamata iniziava cosi, voleva solo significare una cosa.
La moglie era finita da qualche parte in qualche posto sperduto d'Europa.
Sophien, una vera e propria strega succhia soldi, a cui non era mai realmente importato del marito se non a fine mese quando doveva coprire tutti gli assegni ,che madame De Gouille, firmava per acquistare il capo più all'esclusiva che ci fosse.
«sei a casa?»mi chiese con quel tipico tono di voce caldo,capace sempre di smuovere qualcosa dentro di me.
«potrei esserlo,come non potrei esserlo» mi piaceva parecchio lasciarlo con la bocca asciutta, palesandogli chiaramente che questa cosa che c'era tra di noi, qualsiasi cosa essa fosse, continuasse ad esserci solo perché ancora non mi ero stancata troppo.
«ci sei se compro una bottiglia di Möet, delle margherite bianche e dei cioccolatini al liquore di ciliegia?» sorrisi
«non metterci troppo» e cosi staccai la chiamata.
Cristian sapeva bene che poteva mettere piede in questa casa solo quando Alan non fosse con me, perche mio figlio doveva severamente rimanere fuori da tutto questo ,e che non ci fosse alcun tipo di pretesa tra di noi perchè avevo smesso di pensare agli uomini con lo stesso impegno con cui ci avevo pensato prima di sposarmi con Pierre.
Non ci impiegò molto, circa una ventina di minuti in tutto e quando citofonò al portone di giù gli aprii osservandolo dal videocitofono e attendendo che una volta arrivato, suonasse al campanello.
Avevo preparato i flûte di vetro, su un vassoio in argento e li avevo posti su quell'elegante tavolinetto di vetro e legno del salotto, proprio di fronte al divano.
Quando suonò al campanello gli aprii la porta e me lo ritrovai davanti, nel suo elegante completo da avvocato, segno che fosse appena uscito dal suo studio legale e mi sorrise, trovandomi stretta in quella vestaglietta di seta nera, allacciata in vita.
«bonsoir» mi baciò il dorso della mano con il suo tipico modo di fare elegante mentre mi spinse quasi sulla porta.
Ero sul punto di lasciarmi baciare, quando una porta venne chiusa, facendomi immediatamente ricordare che stessi mezza nuda praticamente sul pianerottolo del quinto piano.
Quel ragazzo, sembrava essere costantemente tra i miei piedi, quasi diventando a momenti fastidioso.
«oh,buona sera» si presentò confondendo Cristian che oltre a non averlo mai visto, chiaramente si stava chiedendo che diamine volesse da lui.
«piacere, Federico Bernardeschi» gli porse la mano e a stento Cristian la strinse seguendo poi la traiettoria dello sguardo del giovane ragazzo .
Cristian, parecchio infastidito, tirò un lembo della vestaglietta sull'altra, coprendomi e con uno sguardo di chi sta per incazzarsi sul serio, si mise davanti al mio corpo, a coprire anche le mie gambe nude.
«Cristian De Gouille» si presentò autoritario
«è un piacere conoscerla; ho avuto il piacere di conoscere sua moglie qualche ora fa»moglie?
Ma chi gli aveva dato mai tutta questa confidenza?!
«non sono sua moglie» mi scappò velocemente dalla bocca e Federico mi guardò impassibile.
Certo, chissà che cosa stesse pensando adesso, dato che non ci aveva trovati proprio a non far nulla.
«sono il suo avvocato» se Cristian pensava di poter migliorare la situazione, chiaramente aveva fallito alla grande.
«d'accordo, buona serata» sbrigai la faccenda anche piuttosto imbarazzante e cosi tirai dentro Cristian e chiusi la porta.
«chi è quel coglione?» lo guardai mentre si sfilava via la giacca dalle spalle e si slacciava la cravatta aprendo il primo bottone della camicia.
«non lo so, l'ho visto due secondi quando sono tornata alle due, l'hai visto quanto è bambino?» mi scocciava parecchio dover parlare di quel Federico con Cristian.
Ma poi, di cosa si preoccupava?


Eccomi eccomi, sempre di corsa e di fretta ma l'importante è che ci sia, no?
Ebbene si questo è il secondo capitolo 😍, ogni volta che mi appresto a pubblicarvi il capitolo succede sempre che si viene a creare una sorta di ansia da attesa.
Spero 🙏🏻vi piaccia, che Federico e Char diventino per voi due nuovi personaggi a cui affezionarsi e voglio già anticiparvi da adesso che sebbene anche qui la Juventus abbia il suo ruolo, mi concentrerò più sulla figura di Federico e Char che come potete già notare e ben diversa da Gwen.
È più matura, è donna e mi piace pensare che voi possiate trovare voi stesse in lei.
Vi adoro ♥️, grazie per le stelline che avete lasciato nello scorso capitolo, per i meravigliosi commenti che sapete mi riempiono il cuore di gioia.
Se vi va e vi è piaciuto il capitolo, lasciate una stellina 🌟 qui e commentate con tutto ciò che volete.
Per chi ancora non mi segue, sono 6comeungirasole su Instagram ...lì troverete notizie sugli aggiornamenti e qualche piccolo spoiler di tanto in tanto.
Vostra girasole 🌻

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