La strada che stavo percorrendo, seduto nel sedile posteriore della macchina , andava via via accorciandosi mentre già le insegne sulla strada, dicevano a caratteri grossi "Paris" e inevitabilmente un sorriso nasceva spontaneo sulle mie labbra.
Le mani del taxista ingranano le marce in maniera automatica e il piede pigia sul pedale della frizione e poi sull'acceleratore ,lasciando alle spalle ormai una serie di chilometri, forse sei o sette in totale, che dividevano l'aeroporto da casa di Veronique.
In radio passava una canzone francese a me del tutto sconosciuta ma in uno strano e alquanto bizzarro modo, mi ricordava l'accento morbido ed elegante di un paio di occhi marroni come la terra del fuoco.
«sono quasi arrivato sotto il palazzo» le mandai un messaggio vocale avvisando Veronique mentre ,con lo sguardo sul finestrino,già intravedevo l'elegante prospetto di quel nobile palazzo di fine ottocento nel complesso urbanistico di Parigi.
Il taxy si fermò, lasciandomi prendere il borsone per poi sfrecciare via immettendosi nel traffico e portandosi dietro di se l'odore di pneumatici sfregati contro l'asfalto grigio. Aveva smesso di piovere da un paio di giorni e per questo ancora l'aria era umida e fresca e Arthur stava già in piedi dinnanzi al portone di legno e boccheggiava fintamente distratto con del fumo aspirato dalla sigaretta mentre mancava poco che si mettesse a fischiettare fingendosi interessato al cielo.
«Bonjour Monsieur Bernardeschi» gli strinsi la mano che gentilmente mi porse e mi lasciò attraversare l'ingresso che profumava di cannella e ginger.
«come è andato il viaggio?» mi chiese mentre anche lui,dopo di me, si asciugava e si puliva le suole delle scarpe nello zerbino all'ingresso dove un insolito "bienvenu" prendeva il posto del tipico "welcome" che ci stava di solito.
Era proprio vero, tra francesi ed inglesi non sarebbe mai potuto scorrere buon sangue.
«se cerca la signorina Veronique, è uscita qualche minuto fa» forse credeva di trovarmi impreparato ma il mazzo di chiavi che tirai fuori dalla tasca del mio cappotto nero lo fece ammutolire e mi sorrise leggermente imbarazzato.
«non mettere troppa acqua, sono dei cactus quelli » gli dissi mentre i numeri dei piani del palazzo, andavano via via illuminandosi di rosso fino a raggiungere il piano zero.
«merci» mi disse mentre buttò un occhio proprio a quella povera pianta grassa che navigava nell'acqua.
L'ascensore che stavo aspettando che arrivasse al piano terra mi fece sorridere pensando a Char ,ancora, anche se questa volta non ci eravamo incontrati e a pensarci bene erano ormai quasi tre settimane che non mettevo piede a Parigi a causa del campionato italiano e mi chiesi se avesse seguito almeno una delle partite della Juventus.
Quando le porte automatiche si aprirono, però, la sua deliziosa figura mi apparve tutta concentrata a cercare qualcosa in quella borsa che teneva saldamente tra le mani e così per infastidirla mi schiarii la voce.
«hai bisogno di un sonar per scandagliare gli abissi?» le dissi mentre alzò lo sguardo su di me e mi sorrise.
Ormai credevo di iniziarle a fare simpatia anche se difficilmente riuscivi a dirlo con precisione perché Char sembrava una dalle mille corazze.
«dovevo aspettarmelo che ci saremmo incontrati perché proprio stamattina ho perso il mio cellulare e questo mi sembrava essere un chiaro indizio che la giornata sarebbe andata storta» sorrisi divertito dal suo pungente sarcasmo francese e solo dopo mi resi conto di come stessimo effettivamente prendendo in ostaggio l'ascensore.
«vieni fuori di lì o vuoi far incazzare qualche altro inquilino?» le ricordai mentre si guardò intorno,più precisamente allo specchio e poi con quel passo sexy che da sempre mi aveva fatto guardare le sue lunghe gambe eleganti, corse quasi alla scrivania di Arthur poggiandovi sopra la borsa.
«non si dicono le parolacce davanti una signora, non te lo hanno mai detto?» mi sfidò con quel suo tipico sguardo da: "so tutto io" e qualcosa in me inevitabilmente si smosse.
Non c'era nulla che mi trattenesse lì con lei se non il semplice fatto che la sua compagnia mi piacesse da impazzire e perché poi all'improvviso iniziò a posarmi sulle mani, tanta di quella roba che pensavo fosse impossibile che una borsa del genere la potesse contenere tutta.
«dove diamine l'ho lasciato!» farneticava con se stessa e si portò i capelli dietro le orecchie ,scoprendole, probabilmente perché le ostacolavano la corretta vista in quella borsa che sembrava un pozzo profondo.
Mantenevo salde tre bottiglie quasi finite di un profumo che mi resi conto fosse sempre lo stesso, una spazzola per capelli, del filo interdentale, una confezione iniziata di gomme da masticare alla menta, dei tampax ,una barretta energetica insieme ad una serie di custodie per occhiali da sole, spazzolino per denti e dentifricio versione viaggio, delle salviettine igenizzanti e tanta altra roba.
«mary poppins, se metti anche solo un altro oggetto tra le mie mani, non ti garantisco che io sia capace a reggerle tutte quante» la avvisai mentre , presa come era a cercare disperatamente il suo cellulare, mi ignorò bellamente.
«c'est pas possible!» si infuriò forse perché di fatto non aveva ancora trovato il suo cellulare che sembrava esserle tanto caro ed io non la stavo di certo aiutando dato che trattenevo a stento le risate.
«vuoi provare a farlo squillare?» le proposi e lei mi guardò annuendo
«è nella tasca a sinistra del cappotto» le specificai lasciando che lo prendesse lei stessa dato che le mie mani erano momentaneamente occupate.
«sorridi» mi disse mentre mi puntava il cellulare sul volto e lo sbloccava.
Digitò velocemente il suo numero sulla tastiera e lasciò che squillasse fino al punto in cui una vibrazione sembro percepirsi dalle tasche del cappotto che indossava.
«ti squilla dentro il capotto» le suggerii mentre infilando le mani in tasca effettivamente lo trovò e il suo volto assunse un felice sorriso che si riflettè inevitabilmente anche sul mio.
«merci Federico, oggi sei stato di grande aiuto» ripescò velocemente la sua roba dalle mie mani mentre dalla frenesia gocce del suo profumo finirono sulle maniche del mio cappotto e lo impregnarono.
Arthur ci guardava di sottecchi neanche troppo discretamente e mi fece sorridere il fatto che si volesse in qualche modo impicciare in affari che non lo riguardassero ma, dal momento che Char si sentì così in confidenza da salutarlo con un bacio sulla guancia, ne dedussi fossero in ottimi rapporti.
«Monsieur Bernardeschi?!» mi sentii richiamato proprio mentre annusavo quel profumo che mi solleticava il naso in maniera piacevole.
«si?!» gli risposi inserendo un piede dentro l'ascensore
«Char è un ottima donna, se non sa dove mettere le mani per favore non si fermi troppo su di lei» non ebbi nemmeno il tempo ne la capacità di rispondergli perché le porte dell'ascensore si chiusero,segno che qualcuno da qualche altro piano lo stesse richiamando.
Mi guardai agli specchi che fungevano da pareti dell'ascensore e ricordai come fosse un frame in loop, tutte le volte che ero stato in piacevole compagnia di Char dentro questo affare e mi chiesi che cosa realmente provassi.
Che fosse una donna bellissima oltre ogni dire, era oggettivamente vero ed impossibile da nascondere e che il suo modo di fare mi smuovesse qualcosa, ancora di indistinta natura, lo sapevo da me ma nella mia mente c'era anche Veronique e questa volta lei mi sembrava la soluzione più facile.
Inserii le chiavi nella toppa della porta e mi addentrai all'interno di quell'appartamento ormai cosi familiare ai miei occhi ma anche totalmente distante dalle mie abitudini; sembrava di abitare in una sala operatoria per quanto asettica mi apparisse e non riuscivo a capire neppure come facesse a viverci dentro.
Le pareti erano fredde e prive di quadri, nonostante fosse un gran controsenso dato che Veronique stessa ne dipingeva alcuni eppure casa sua sembrava vuota e starci dentro da solo, mi faceva sentire terribilmente più piccolo delle cose mi circondavano.
Le lenzuola ancora stropicciate da un solo lato letto, quello dove dormiva, mi fece capire che si fosse alzata in ritardo e che fosse letteralmente scappata da casa, difatti c'era un libro universitario atterrato malamente sul pavimento e alcune pagine erano state costrette a spiegazzarsi.
"Dalì et sa realite liquide"
L'immagine di una finestra sfocata ai suoi lati, attirò la mia attenzione e cosi mi sedetti all'angolo del letto mentre il borsone scivolava per terra e le mie mani passavano insicure sulla carta stampata e macchiata da inchiostro colorato.
Mi sarebbe piaciuto tantissimo riuscire a leggere e capire anche una sola riga di quel pregiato articolo d'arte e seppure per me fosse relativamente impossibile farlo, le sole immagini raffigurate mi aiutarono a capire di cosa si trattasse.
L'arte mi era sempre appartenuta, fin da piccolo quando imbrattavo le mie mani con gli acquerelli di mamma rovinandoglieli a volte anche irrimediabilmente e poi preso dall'euforia mi sporcavo il volto ed i vestiti , talvolta anche le mura di casa e se mamma non aveva in alcun modo voluto che ne le mie impronte cosi come quelle di Gaia, sparissero dalle mura del suo studio, di sicuro aveva un significato che andava ben oltre il ricordo di un momento della nostra infanzia.
Sarebbe stato ben più facile per me scegliere la carriera da artista e seguire il corso della mia famiglia, come una tradizione che si tramanda in maniera perpetua; un dono insomma.
Eppure...
Eppure pur allontanandomi da tele e pennarelli, da marmo e da tutto quel concetto di arte che trasudava da qualsiasi angolo delle città in cui avevo vissuto, prima Carrara da bambino e poi Firenze da giovane ragazzo, alla fine era stata l'arte che si era nuovamente messa sulla mia carreggiata e cosi avevo fatto del mio corpo la tela per i miei principi di uomo.
Anche contro l'iniziale consenso di papà.
La Fede, la lealtà a me stesso e a ciò in cui credo nel bene e nel male, erano incise a inchiostro nero sulla mia pelle e guardarle ogni giorno e saperle insieme a me, mi faceva stare più tranquillo come se perdermi totalmente per me sarebbe stato impossibile.
I miei tatuaggi erano come le bussole, quando si va in esplorazione e nel mio caso, io sapevo di essere in costante esplorazione di me stesso.
Camminai in giro per l'appartamento, accendendo immediatamente i riscaldamenti e portandomi dietro il libro fino a raggiungere il piano cottura della cucina; vivere da solo da lungo tempo mi aveva costretto ad imparare come cavarmela se non volevo morire di fame e la salsa di pomodoro, da vero italiano, era una pietanza piuttosto semplice da preparare o almeno cosi ricordavo.
Tirai fuori dalla dispensa la salsa di pomodoro ,che di certo non era fatta in casa ma in questi casi bisogna accontentarsi , nascosta dietro un mucchio di roba pronta da scaldare al microonde e risi perché mi sembrava la perfetta incarnazione della vita da universitario.
«insalata di tonno e peperoni gialli » ripetei ad alta voce, il contenuto di una strana confezione di insalate fredde di una nota marca italiana e mi stupii persino che ci fosse gente disposta a comprarla.
Che Veronique fosse un tipo a cui scocciava parecchio cucinare, questo mi era ben chiaro e facevo bene a non farlo sapere a mia madre dato che secondo lei una donna era obbligata a saper cucinare altrimenti non si sarebbe mai potuta sposare e nel suo piano divino, di certo una simil donna non era neanche lontanamente presa in considerazione .
Ad avvalorare la mia tesi, si presentarono a me una serie infinita di mestoli di legno ancora nuovi ed immacolati proprio perché mai utilizzati e non potevo di certo fargliene una colpa, dato che studiava a qualsiasi ora del giorno.
Per sentirmi più a casa decisi che accendere le luci calde della cappa avrebbe decisamente reso l'ambiente più confortevole e dallo stereo del salotto, sintonizzai con il bluetooth il mio cellulare e inserii la mia playlist preferita per accompagnare il tutto.
« di una vita che è passata come un lampo e che passa avanti la stazione» canticchiai mentre l'aria di casa iniziava a riscaldarsi e il calore dei fornelli accessi mi spinse a spogliarmi del maglioncino che indossavo mentre la salsa in pentola iniziava ad insaporirsi grazie all'aglio che avevo precedentemente fatto soffriggere per alcuni istanti.
Uno strappo alla dieta ferrea che seguivo.
Cercai invano la mia tipica pianta di basilico, quella che tenevo ben curata in cucina nella mia villa a Torino ma in quella di Veronique era solo possibile scorgere strane sculture di pongo che avevano anche un non so che si inquietante .
Divertito da una di essa, mandai la foto a Victoria solo per indispettirla e farle sapere che a suo malgrado ero tornato a Parigi, una città che sembrava rimanere totalmente incompatibile con la sua vita.
La sua risposta sarcastica arrivò pochi attimi dopo e i deliziosi apprezzamenti che fece alla statuetta, mi fecero ridere cosi tanto che pigiai sul suo nome e decisi di interrompere la sua quiete, già abbastanza molestata da Paulo.
«icche vuoi adesso?» mi rispose scocciata e la scimmiottai ma la sua attenzione per ovvi motivi slittò sulla musica che proveniva dallo stereo.
«sai essere libero costa soltanto qualche rimpianto» canticchiò a ritmo
«sii tutto è possibile, persino credere che possa esistere un mondo migliore» completai come era un po tipico quando percorrevamo la strada Torino-Firenze, quelle poche volte che ritornavo dai miei, tipo durante il periodo di Natale.
«vuoi una buona notizia?» le dissi retorico
«che l'hai già licenziata?» stetti alcuni minuti in silenzio senza darle una risposta per farle capire che a me non faceva ridere , in realtà solo un pochino ma questo lei non l'avrebbe mai saputo
«okkey okkey, mamma mia come sei permaloso Bernardeschi , gnamo via ridi un pochino ? » continuò parlando in fiorentino, che nonostante frequentasse da due anni la facoltà di lettere e filosofia mai era stata capace a separarlo dal suo modo di essere.
Chi nasce fiorentino muore fiorentino e mai cosa più vera era stata detta.
«ho incontrato Char, stamattina in ascensore» le dissi di getto e mi sentii tranquillo quasi appagato nel raccontarglielo
«ma te voi vedere che io ti scriverò una storia su di voi e la intitolo: "ascensore" » sapevo che se avesse voluto l'avrebbe potuto fare perché la sua indole era questa, quella di non stare mai buona e ferma perché no ne era assolutamente capace, una specie di difetto di fabbrica che a mio avviso era solo un altro pregio da aggiungere alla sua persona.
Le dita sporche di inchiostro a causa di tutte quelle penne bic, dal tappo sempre perso chissà dove, che a furia di utilizzarle le scoppiavano tra le mani e l'odore inconfondibile di carta che negli anni aveva irrimediabilmente impregnato le pareti di quel piccolo appartamento al terzo piano in via Marsilio Ficino, con quelle tende colorate dai colori più disparati ed eccentrici nemmeno fossimo in un negozio etnico in piena India ; già perché erano proprio cosi poco sobri e tipici del suo essere cosi fuori dagli schemi e dalle regole per non parlare poi di quell'odore di biscotto delle sue inseparabili candele che accendeva a qualsiasi orario del giorno e che sembrava sempre che fosse cimentata in qualche strano rito trascendentale.
«hai già due romanzi da scrivere mia cara signorina Dolfi, non le sembrano sufficienti?» ed ovviamente rimasi li a sentirla parlare delle sue stravaganti idee che in un modo tutto loro erano capaci di trascinarmi in un mondo fatto di grandi obiettivi e riforme capaci di tirar giù dogmi di una vita intera come quella volta in cui si chiese perché mela di dicesse mela e non pera.
A stare appresso a lei, c'era solo da impazzire.
«vuoi che ti porti qualcosa da Parigi? Magari un dolcetto cosi proviamo a mandare via un po della tua acidità » punzecchiarla era la cosa che fin da ragazzi ci aveva fatti diventare amici .
«Bernardeschi è inutile che ti nascondi in questo appartamento che sembra il reparto dei surgelati alla conad » scoppiai a ridere per le assurde similitudini che le attraversavano la mente.
«Tu-ssè' propio una birbona» feci attenzione a non perdere un dito mentre toglievo la pentola calda dal fornello e trattenevo il costoso cellulare, pericolosamente in bilico tra la spalla sinistra e la mandibola.
«che cosa ti ridi Federico; te ti rendi conto che il cimitero in via Soffiano a confronto è un ambiente più confortevole di casa sua?!» era una guerra persa in partenza e dopo che Veronique si era permessa di chiedere se la sua scrittura somigliasse a quella di un certo Boccia, Torcia....Moccia, ecco si proprio lui; la loro amicizia era morta prima ancora di nascere.
«stai pensando a Moccia vero?» mi chiese mentre annuivo impossibilitato a trattenere le risate.
«affogati con l'escargot che ti farà mangiare a cena» e questo mi fece ridere ancora di più.
«ma smettila , nun fa la bischera» e mi staccò in faccia con tanto di "vaffanculo" che aleggiava nell'aria con triplo salto carpiato all'indietro .
Regola numero uno: mai fare incazzare Victoria ,ma io ero un maestro nel farlo e forse venivo superato solo da Paulo che ormai si stava specializzando in materia.
«parlavi a telefono con qualcuno?» mi girai di scattò mentre Veronique lanciava la sua borsa sul divano e mi veniva incontro per salutarmi.*****************************************
Eccomi eccomi, ci sono ♥️.
Si lo so, lo so mi sto lasciando prendere la mano con questo fiorentino ma icche volete da me?
Li si può solo amare e poi ho una notizia bomba...aspetto la cittadinanza ad honorem quindi....fate un po voi.
Nulla allora, che dirvi..beh diciamo che Bernardeschi sembrerebbe avere un principio di attrazione fisica?
A me sembrerebbe proprio di si, poi staremo a vedere e...solo chi continuerà a seguire la storia lo scoprirà.
Hahaha no suvvia si scherza, ora smetto di far la bischera.
Vi adoro tantissimo e vi aspetto qui sotto con tanti commenti e se vi va tante stelline 🌟.
Se volete potete contattarmi su Instagram al: 6comeungirasole
Vostra Girasole 🌻
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Inchiostro
FanficParigi è la foto bianca e nera e senza tempo di Lei, quella finita tra gli angoli di Palais Versailles proprio quel posto che fin da piccola l'ha sempre lasciata con il fiato sospeso e lo sguardo di chi non ha paura di guardasi. Già, perché Charlott...