Capitolo 4.

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«Knocking on heavens door, Bob Dylan. Che ne dici?» afferrò la sua chitarra, una Sigma DR41, e si sedette su una delle sedie bianche della cucina.

Eravamo scesi al piano di sotto, dopo aver fatto la telefonata più imbarazzante e più ansiosa della mia vita, che alla fine si era rivelata un successo, perché avevano accettato!

Aveva parlato Camden con la persona che si occupava della revisione dei testi. E dalla sua faccia, avevo dedotto che l'idea di una collaborazione piaceva anche a chi stava dall'altra parte del telefono. Questo, sicuramente, perché Camden aveva detto chi era.

Stavo iniziando a pensare che fosse dannatamente modesto, e che in realtà il suo, fosse un nome piuttosto conosciuto.

«Okay, io faccio il ritmo, e tu canti. Voglio proprio sentire chi c'è sotto Phoebe Butler.» mi fece l'occhiolino, iniziando ad accordare la chitarra. Pochi minuti prima avevamo fatto il riscaldamento per la voce, e Camden mi aveva offerto una banana, per scaramanzia.

Quando attaccò con la prima nota, e scandì il ritmo con la chitarra e con qualche colpo sulla buca, mi diede il via con un cenno della testa, e iniziai.

Chiusi gli occhi, muovendo la testa a ritmo di musica, e lasciandomi trasportare dal dolore del testo, dalla melodia stupenda e dal uuhm-uuhm che faceva Camden come sottofondo.

Quando riaprii gli occhi, Camden mi guardò ammaliato, posò la chitarra e applaudì. «Phoebe Butler, e questo per te sarebbe canticchiare?» scosse la testa, «Dobbiamo assolutamente fare qualcosa. Questo talento non può restare chiuso qui.» indicò il mio petto. «Devo assolutamente fare una chiamata, è una persona con delle conoscenze. Potrei farti sentire a qualche produttore, farti avere un vero contratto tra le mani e...»

«Aspetta, Camden. Frena. Di cosa stai parlando?» lo interruppi, confusa. «Io sono una compositrice, adoro scrivere e comporre musica. Non cantare. Quello è un passatempo. Non voglio niente di quello a cui stai pensando.»

«Hai mai sentito parlare di cantautrici, Phoebe?»

Non mi lasciò il tempo di rispondere. «Tu saresti l'ideale. Dolce, sensibile, con talento. Trasmetti molto mentre canti. Perché mai dovremmo comportarci come se non fosse così?»

Mi stavo innervosendo. Lui sapeva molto bene che non avrei mai voluto essere la persona a cui stava pensando. Lui sapeva bene che il mio sogno era quello di lavorare dietro le quinte, e continuare a sognare scrivendo testi e arrangiando la musica. Della popolarità non me ne fregava un bel niente. Non ero quel tipo di persona.

«Camden, ma tu hai capito chi sono, e quello che cerco? Se avessi voluto provare la carriera di cantautrice avrei partecipato ad un talent o qualcosa del genere. E per rispondere alla tua domanda, sì. Il mio talento, come lo chiami tu, rimane chiuso qui, perché non è a quello che voglio dare un futuro!» mi trovai quasi ad urlare.

Si alzò in piedi, e mi diede le spalle. Capii dal ritmo delle sue spalle, che si abbassavano e alzavano velocemente, che era agitato quanto me. «Perché non vuoi l'aiuto di nessuno? Perché per te è così difficile accettare che qualcuno veda qualcosa di buono in te?»

«Non si tratta di questo, Camden. Io so cosa voglio. E non deve essere necessariamente quello che vuoi tu

«Certo che no!» si voltò verso di me. Sembrava arrabbiato. «Non deve esserlo. Ma tu hai bisogno di qualcuno che creda in te, che ti incoraggi...»

«Senti, la sai una cosa? Forse è meglio fermarsi qui, che ne dici? Io...credevo che tu avessi capito cosa significa per me la musica, ma soprattutto, cosa voglio io dalla musica, da me...e dal resto del mondo. E forse tutto questo non è...giusto.» afferrai la mia borsa a tracolla, e lo guardai. Aveva ancora le spalle tese, e le mani aperte appoggiate sul bancone della cucina. «Non ho bisogno di nessuno che mi incoraggi ad inseguire i miei sogni, Camden, proprio perché sono i miei, e solo io li conosco. Posso lottare da sola, e a modo mio. Perché credi che io sia così bisognosa di aiuto? Credi che non possa farcela da sola? Ti faccio pena?»

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