Capitolo 9.

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Un mese dopo.

«Quanto manca?» domandai, battendo un piede sul pavimento in parquet.

«Non molto, credo.» rispose Camden, di nuovo.

Ed io, per l'ennesima volta, mi guardai intorno, soffermandomi a guardare una ragazza con i capelli per metà blu e per metà biondi. Era più bassa di me, vestiva completamente di nero, e batteva un piede a terra, dandosi il ritmo, e canticchiando qualcosa, leggendo da un foglio che un ragazzo in stile punk con una cresta alta quanto Alisha gli stava tenendo davanti.

Sospirai, e iniziai a togliermi con le unghie lo smalto nero che mi ero messa quella mattina stessa.

«Sta' calma. E piantala di battere quel piede per terra, mi stai innervosendo.» mi riprese Camden, per la centesima volta quel pomeriggio.

«Ho sempre odiato le sale d'attesa. E questa è decisamente la peggiore che abbia mai visto.»

Lui si girò verso di me, e mi guardò come se mi fossero spuntate tre teste.

Okay, non era davvero così. La sede della Sound Sanctuary era tutto, fuorché brutta o banale. La famosa casa discografica di Simon Newell era un concentrato di eleganza, buon profumo e strumenti musicali in ogni angolo disponibile.

Dico davvero, solo tutti quegli strumenti dovevano costare tre volte casa mia.

«D'accordo, ti ignorerò solo perché sei tremendamente nervosa e non sai di cosa stai parlando. Ma ti avviso, quando usciremo di qui, stammi alla larga. Questo tuo cattivo umore sta davvero mandando i miei neuroni a farsi fottere.»

Alzai gli occhi al cielo. «Tanto non sai stare senza di me.»

Lui sorrise, ma non rispose.

Il nostro rapporto era cambiato parecchio, durante quel mese. Da quando la mamma se n'era andata, qualcosa dentro di me era si era rotto.

Mi guardavo allo specchio, e non mi riconoscevo più. Vedevo il suo riflesso, guardandomi, e iniziai ad odiarlo. Odiavo qualsiasi cosa mi ricordasse lei, persino avere delle abitudini simili alle sue mi mandava il cervello in tilt, come il modo di metterci il mascara o quello di riordinare i cassetti della biancheria.

Ma Camden era sempre stato paziente, e si prendeva cura di me come meglio poteva. Ormai era un membro della famiglia a tutti gli effetti, e le mie sorelle lo consideravano un vero fratello maggiore. Mio padre, inoltre, aveva trovato in lui un braccio destro di cui fidarsi, e un amico che lo accompagnasse a sbronzarsi quando i pensieri lo tormentavano, e non riusciva a sbarazzarsi delle voci dentro la testa che lo infastidivano notte e giorno.

Alisha e Lola stavano iniziando a farsene una ragione. Avevano, grazie al cielo, parecchi modi per distrarsi e non pensare alla loro madre biologica.

Ma io e papà avevamo deciso di comune accordo di farle seguire da una psicologa infantile che potesse accompagnarle in questo brutto e tortuoso percorso.

Braiden era quello ridotto nel peggior modo. Forse, persino peggio di me. Lui si era chiuso nel suo mondo. La sua camera era diventato il suo rifugio oscuro, e ormai aveva iniziato ad estraniarsi dalla famiglia e a chiudersi in sé stesso. Non l'avevo più visto versare una lacrima, da quella sera, e tantomeno sollevare l'argomento. Era come se una mamma lui non l'avesse mai avuta.

E io non sapevo come aiutarlo. Perché purtroppo, era difficile aiutare qualcuno che un aiuto non lo voleva.

«Non sei poi così lontana dalla realtà.» mi risvegliò il mio complice, con sguardo combattuto.

«Camden.» lo avvertii.

Lui abbassò lo sguardo, e non disse nulla. Ma notai la rabbia che stava provando. Si contorceva le mani, e le vene erano ben evidenti nelle sue braccia tese.

Guardami (IN REVISIONE)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora