Capitolo 11.

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«C'è qualcosa che non mi convince in tutta questa situazione, Phoebe. Sei proprio sicura che non vuoi che venga là? Il volo l'ho già trovato. Mi stai impedendo di bloccarlo. Sei certa di stare proprio bene?»

Risi per la tenera insistenza della mia amica. «Sto bene, davvero. E non occorre che tu venga qui solo per una caduta.»

«Beh, dalla tua faccia non si direbbe. Dai più come l'impressione che un camion ti si sia spiaccicato in faccia e ti abbia stirato per bene. Stai mangiando?» si attorcigliò una ciocca di capelli biondi intorno alle dita, mentre con i suoi grandi occhi mi scrutava.

A volte con Lily sembrava di essere in una sala interrogatori.

La mia faccia fu la risposta alla sua domanda.

«Phoebe! Ma che cavolo stai facendo? Inizia a mangiare o giuro che ti mando mia madre con i suoi dannati stufati salati!»

«Il cibo della clinica è pessimo.» obbiettai, oscurando per un momento la telecamera, per prendere un respiro profondo, e per non farle vedere che avrei voluto ridere per la battuta sullo stufato di sua madre, che, tra parentesi, era davvero salato.

«Tu lo sai che sono sempre in contatto con tuo padre e Braiden, vero?» mi scrutò attraverso la fotocamera.

«Sì, Lily. Lo so. Ma devi fidarti di me. Sto bene.»

«Bene. Allora cerca di non raccontarmi balle, e mangia. Ora vado, stiamo per aprire.» alzò gli occhi al cielo, battendo la mano su una serranda ancora abbassata. «E se può consolarti, il tempo qui a Denver fa schifo. Detesto tutte queste montagne.»

«Giurami che non te ne andrai più.» le risposi, seria.

«Te lo giuro. Dovessero cadermi tutti i denti!» sorrise. Fu un sorriso triste, ma per quel giorno me lo feci bastare.

Quando chiusi la videochiamata, il sorriso che avevo ricambiato si spense e mi guardai intorno con una confusione tale che avrei voluto piangere disperatamente.

Nonostante fossero passati già tre giorni, non avevo ancora ben capito cosa mi fosse successo, e a quanto pare, non mi era dovuto saperlo. Mio padre era andato molto sul vago, così come le mie amiche. Qualcosa mi sfuggiva, e percepii che dovesse essere qualcosa di doloroso, se spingeva mio padre a mentirmi o omettere delle cose, come amava precisare.

E una parte di me, temeva davvero di saperlo.

«Ciao splendore, come stai oggi? Hai già mandato giù quell'orribile cibo, o devo imboccarti di nuovo?»

Appoggiata alla porta della mia camera vidi Ronda, l'infermiera che si stava prendendo cura di me.

Era una donna afro, abbastanza alta, sulla quarantina. Era bellissima e buonissima con me. Aveva i capelli con le treccine piccole e strettissime, e gli occhi più vispi che avessi mai visto. Profumava sempre di cocco, e l'adoravo.
Avevamo fatto amicizia in poco tempo, e in così poco, avevamo legato come se ci conoscessimo da tutta la vita. Era l'unica che sembrava davvero capirmi, in mezzo a tutta quella confusione, e non potevo che ringraziarla silenziosamente ogni volta che veniva a strapparmi un sorriso o a sedersi accanto a me senza dire nulla.

«Mai stata meglio. E sì, quel purè ancora sta vagando nei meandri del mio stomaco.»

«A me puoi dire la verità, sciocchina.» venne a sistemare le lenzuola, e mi fece cenno di alzarmi. Portandomi dietro l'asta con la flebo, mi spostai nel lettino accanto al mio.

«A una vecchia donna non puoi nascondere niente, ricorda. Sai, ho letto da qualche parte che una volta superati i quaranta si diventa più saggi o qualcosa del genere. Quindi dai retta a me: se non mangi, ti faranno delle flebo infinite che odierai.»

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