Capitolo 23.

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Erano passati solo due giorni, dal terribile giorno dell'incidente, come amava definirlo il medico che aveva salvato la vita a Camden, per una questione di minuti.

Io avrei preferito chiamarlo attacco isterico di una stronza pazza, ma mio padre mi aveva guardato male, per poi abbracciarmi, dicendomi «So che stai soffrendo, Bambina. So che hai un male cane, qui, in fondo al cuore. Ma ricorda: non permettere alla rabbia...»

«...di trasformarti in chi non sei.» continuai al posto suo.

Mi sorrise, stringendomi forte, sapendo che non avrei retto le parole che il medico avrebbe poi pronunciato.

«Adesso è in come farmacologico. Il ragazzo ha perso parecchio sangue, e se non fossimo intervenuti in tempo, probabilmente non c'l'avrebbe fatta. Né per l'emorragia, e tantomeno per il pneumotorace iperteso che per fortuna siamo riusciti a prendere in tempo.»

Jolanda emise un singhiozzo disumano, aggrappandosi forte alla mano di suo marito, mentre con l'altra stringeva la mia.

Era distrutta.

Lo eravamo tutti.

Ma lei era la madre. Colei che lo aveva messo al mondo. Colei che lo amava sopra ogni cosa, e che avrebbe dato la sua vita per lui. E aveva più diritto di chiunque altro di soffrire.

«Vi spiegherò in breve di cosa si tratta: il paziente ha avuto un grave trauma dovuto alla presenza di aria nello spazio pleurico del polmone destro. E questo avrebbe potuto comportare il probabile rischio di collasso parziale, o completo dell'organo. Per fortuna, non appena è arrivato qui, abbiamo eseguito subito un RX torace, per quantificare la progressione e la risoluzione.»

Stavo iniziando a non capirci più niente.

Cosa stava succedendo? Cos'era successo al mio Camden?

«Dottore, mi scusi, potrebbe essere più chiaro? Qui siamo tutti molto confusi e provati.» disse Amélie, soffiandosi il naso, con gli occhi arrossati e il volto incavato.

«D'accordo, la farò breve: Camden è stato ad un passo così dalla morte.»

«Dottore!» esplose Jolanda, pronta ad aggredirlo.

Troy, che stava seduto su una sedia senza il coraggio di proferire parola, e con gli occhi arrossati, strinse i pugni e serrò la mascella. Ma non disse niente.

Non ne aveva la forza.

«Signora Walker, volevate la verità. Ed eccola qua. Suo figlio è stato sottoposto d'urgenza ad un drenaggio toracico con il conseguente ricovero in terapia intensiva per sottoporlo alla ventilazione meccanica di cui necessita, e per garantire un'adeguata e costante ossigenazione dei tessuti. Adesso, non ci aspetta che vedere come reagirà il suo corpo e se sarà pronto a svegliarsi.»

«Certo che mio figlio è pronto a svegliarsi! Lo conosco bene! Non starà un minuto di più in quel letto. Vedrà, dottore, in poche ore aprirà gli occhi e mi dirà...» iniziò a bofonchiare parole incomprensibili, lasciandosi andare tra le braccia del marito.

Jeffrey, cercando di mantenere la calma, mentre circondava il corpo minuto della moglie, chiese al dottore se avessero rimosso il proiettile e se quello non avesse potuto causare qualche infezione.

Per me, era come se parlassero un'altra lingua.

Il dottore confermò di aver eliminato il proiettile, e che avremmo dovuto aspettare il suo risveglio, se ci sarebbe stato, per valutarne l'esito.

Il fatto che dopo due giorni ci trovassimo ancora tutti lì, in quel corridoio vuoto e buio, mi mise addosso un'ansia indescrivibile.

Tutti quanti, a turno, entravamo nella camera di Camden per parlargli. Ronda diceva che ci sentiva, che andava bene parlargli. Ma che sarebbe tornato da noi quando si sarebbe sentito pronto. E per quanto noi cercassimo la chiave per farlo tornare, stavo iniziando a capire che quello era qualcosa al di sopra di noi, e che non avremmo potuto fare un bel niente, se non aspettare. E sperare.

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