Capitolo 12.

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L' aria fresca di metà settembre mi fece svolazzare i capelli, e nonostante stessi guidando, adoravo tenere una mano fuori dal finestrino per far passare il vento attraverso le dita. Era una sensazione che mi rilassava.

Era tardo pomeriggio, per strada c'erano bambini accompagnati dai genitori che probabilmente stavano rincasando dopo una giornata piena, qualche anziano e una coppia che si teneva per mano. Era tutto così tranquillo.

Mentre sorpassavo una macchina, alzai il volume della musica, sentendomi libera. Quel giorno mi ero svegliata con una positività mai avuta prima di allora. Forse, era stato quel bigliettino a farmi sorridere. O semplicemente il fatto di non sapere chi lo avesse scritto. Sentivo che stava lì il punto. Lì, da quel biglietto, dovevo ricominciare.

Parcheggiai nella via adiacente alla biblioteca, su Anapamu St, e quando scesi dalla macchina inspirai profondamente. Presi la montagna di libri che avrei dovuto consegnare qualche mese prima, e mi preparai mentalmente al rimprovero della bibliotecaria, mentre mi consegnava una multa. Me lo meritavo, però. Sapevo bene che c'era una scadenza, e io l'avevo superata di parecchio.

Mentre armeggiavo per chiudere la macchina, mi maledissi mentalmente per non aver messo tutti quei libri dentro una busta, invece di portarli a mano.

Passai davanti a qualche villetta, tutte vecchio stile, ma sempre molto carine. Alcune avevano qualche roseto, altre avevano dei giardini piuttosto sterili. Fossi stata in loro, avrei arricchito quel giardino con un dondolo, un laghetto artificiale, magari qualche...

Un cane iniziò ad abbaiare, risvegliandomi dai miei pensieri, e sentii delle urla provenire da lontano. Mi girai di scatto, e vidi qualcuno scappare, letteralmente, da una folla di ragazze.

«Aggrappati a me!» gridò il ragazzo, pochi secondi prima di afferrarmi dal sedere, sollevarmi, e trascinarmi in un vicolo.

Mi tappò la bocca con la mano, e i suoi occhi furono a pochi centimetri dai miei.

Quegli occhi...li avrei riconosciuti tra milioni. Con sfumature tra l'azzurro e il verde. Con le pagliuzze gialle, che li rendevano ancora più splendenti.

Dopo qualche minuto di silenzio, finalmente, tolse le mani dalla mia bocca. «Ehi, Phoebe.» mi sorrise. Era Samuel.

«Ma cosa diamine succede?» gli domandai, con il cuore che batteva a mille. Gli assestai uno schiaffo sul braccio, e vedendolo ridere, quasi mi venne voglia di picchiarlo sul serio. Mi aveva spaventata a morte. Dopo l'incidente, ero terrorizzata dall'idea di potermi ferire di nuovo. Sapevo che le ferite esterne, prima o poi, si sarebbe sanate. Per quelle interne, invece, avevo qualche dubbio.

«Ecco, diciamo che...»

«Dovresti chiedermi scusa, almeno!» quasi gridai. «Mi hai spaventata a morte!»

Abbassò lo sguardo, e quando mi guardò, lessi comprensione.

«Okay, mi dispiace. Scusa. Non avrei dovuto reagire così. Ma per lo meno, di qualcosa. Dammi una spiegazione.» lo supplicai.

«Con il mestiere che faccio, purtroppo, episodi del genere capitano spesso. Più di quello che vorrei, ecco.» sembrava quasi...imbarazzato?

Non mi lasciò il tempo di chiedergli quale fosse il mestiere che faceva, perché mi precedette. «Vieni, ti aiuto a raccogliere i libri.» mi disse, uscendo dal vicolo e prendendomi per mano. Un gesto che a lui era venuto spontaneo, del tutto naturale, mentre a me stava per schizzarmi il cuore fuori dal petto.

«Sei stato tu?» gli chiesi.

Quando mi guardò, ne ebbi la conferma. Non ebbe nemmeno bisogno che specificassi qualcosa.

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