Capitolo 3 - Incontri

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Seduto al tavolino accanto ad una delle due grandi vetrate che danno sulla strada, aspetto che qualcuno del bar si avvicini a me per permettermi di ordinare. Nel frattempo sfoglio il menù, ma solo per scoprire cosa offre la "casa", perché ho già chiaro in testa cosa prendere per dissetarmi. E quando ho in mente una cosa, difficilmente si riesce a farmi cambiare idea. Da questo punto di vista sono davvero testardo come un mulo.

I miei occhi stanno leggendo le lettere nere e affusolate della parola focaccia, quando noto quella stessa pagina del menù, rischiarata dai raggi del sole che filtrano dalla vetrata, diventare all'improvviso più scura.

Alzo lo sguardo e capisco che l'ombra è causata dalla figura di una ragazza non tanto alta, con i capelli neri a caschetto tenuti all'indietro da un cerchietto turchese e proprietaria di due grandi occhi color carbone.

«Ciao! Vuoi ordinare qualcosa?» mi chiede poi, il sorriso che mostra una sfilza di denti bianchi e un piccolo brillantino incollato al secondo incisivo sinistro. Tutto questo è in contrasto col colore della sua pelle: nè nero, nè bianco. Caffelatte.

«Una limonata con ghiaccio» mormoro guardando inebetito il minuscolo brillante nella sua bocca. Come cornice, due labbra rosee, piene, invitanti.

«Una limonata con ghiaccio in arrivo per il bel morettino» esclama mentre trascrive il mio ordine su un taccuino color cuoio.

La sua esclamazione mi colpisce: nessuno mi ha mai detto che sono bello. Nessuno a parte mio padre e mia madre s'intende. Per loro sono il ragazzo più bello del pianeta e dicono che non è perché sono figlio loro, no, ma perché è la verità. Certo.

La ragazza dagli occhi neri se ne va, ma il mio sguardo la segue finché non raggiunge il bancone del bar. Seguo ogni suo movimento, con discrezione, fino a quando la suoneria del mio cellulare non mi segnala l'arrivo di un nuovo messaggio.

È mio padre che mi avverte che fra cinque minuti sarà nel parcheggio. Gli rispondo avvisandolo che sono seduto al bar per bere qualcosa e che appena avrò finito lo raggiungerò.

Non faccio in tempo a bloccare nuovamente il telefono e rimetterlo in tasca, che un urlo seguito dal rumore di vetri infranti mi fa sobbalzare.

A pochi passi da me la giovane moretta è distesa sul pavimento, con i resti di quella che doveva essere la mia limonata.

Poco più in là, una delle mie stampelle.

«Ti sei fatta male?» domando subito, cercando di alzarmi nel modo più veloce e meno goffo possibile. Mi avvicino a lei e le allungo una mano, che però non afferra.

«Sono inciampata sulla stampella, mi dispiace» dice, afferrandomi, solo dopo aver pronunciato quelle parole, la mano che le avevo precedentemente offerto.

Mi dispiace? Si sta davvero scusando con me? È per colpa della mia fottuta stampella se è volata per terra, e lei sta chiedendo scusa a me?

Realizzo soltanto dopo qualche secondo che le nostre mani sono ancora unite. Guardo le sue dita avvolte nelle mie e avverto una strana sensazione. Strana, ma piacevole.

«Veramente sono io a dovermi scusare. Se non avessi posato a terra quelle..."cose" non saresti caduta. Perdonami» mormoro lasciandola libera dalla mia presa.

«No no, davvero non devi assolutamente scusarti, anzi, mi dispiace davvero per la tua limonata. Te ne porto subi...»

Ma non fa in tempo a finire la frase poiché viene chiamata da un collega che urla il suo nome.

«Camille! Che hai combinato?» grida. «Se tenessi la testa qui in basso e un po' meno sulle nuvole forse non faresti queste figuracce!»

La ragazza, Camille, fa una smorfia, segno che dimostra quanto tra lei e l'uomo non scorra buon sangue.

«Un vero stronzo» azzardo a bassa voce per farmi sentire solo da lei, la quale annuisce e torna a sorridere.

«Ti porto la tua limonata» dice, ma prima che possa tornare al bancone la mia voce la blocca.

«Non ce n'è bisogno. Anzi,» dico estraendo dalla tasca dei jeans dieci dollari per poi metterglieli in mano, «tieni. Se non per la limonata, almeno per il bicchiere.»

Sta per ribattere, lo vedo dallo schiudersi delle sue labbra, ma un clacson fuori dalla vetrata mi fa voltare e riconosco mio padre alla guida della sua jeep blu.

«Devo andare. Ciao.»

E dopo averla salutata recupero le stampelle ed esco dall'edificio con la sensazione che il suo sguardo sia ancora su di me.

Se perché a detta sua sono un "bel morettino", per il mio passo strascicato, o perché sono un gentiluomo, questo non lo so, ma sento i suoi occhi color del petrolio puntati addosso alla mia schiena, che nel frattempo infiamma.

-

Il tragitto verso casa non è affatto silenzioso, tutt'altro.

Mio padre non fa altro che pormi domande su come sia andato il primo giorno, neanche fossi andato a scuola per la prima volta.

Quando penso che abbia esaurito i quesiti mi rilasso, ma mi accorgo subito dopo di aver pensato troppo presto. Infatti parte di nuovo in quarta, ma, questa volta, la sua domanda non riguarda nè le persone del gruppo, nè la psicologa, nè tantomeno l'edificio.

«Chi era quella ragazza?»

All'improvviso sento freddo, poi caldo, poi di nuovo freddo. Volto il viso verso mio padre e vedo le su labbra incurvate in un sorriso che ha un che di malizioso. Avrei voglia di chiedergli che filmini si sta facendo.

«Quale ragazza?» domando invece, perfettamente consapevole che questa risposta non servirà a chiudere l'argomento.

«Quella con cui stavi parlando e a cui tenevi la mano» risponde con il tono di chi pensa di aver capito tutto, ma, in realtà, non ha capito niente.

Hai l'occhio lungo, eh papà?

«La barista. È scivolata sulla mia fottuta stampella e l'ho aiutata ad alzarsi>> dico cercando di rimanere indifferente alla questione.

«Bravo Shawn. Hai fatto bene! Vedi? Ti sei comportato come un ragazzo normale, anzi, direi meglio, dato che molti tuoi coetanei se ne sarebbero fregati. Anche se, a dirla tutta, la ragazza era molto carina quindi forse...»

«Papà...» lo interrompo scuotendo la testa ripetutamente «...spegni l'interruttore per favore. Mi fai venire mal di testa» dico ridendo appena. Lui capisce e rimane in silenzio fin quando non arriviamo sotto casa.

Dopodiché mi saluta, e torna alla sua officina.

Quando entro in casa vengo pervaso dal profumo di incenso. Mia madre ha una vera fissazione per i profumatori e i diffusori di essenze, tanto da averne messo uno in ogni stanza.

Chiudo gli occhi per un istante e inspiro a pieni polmoni.

Casa.

Finalmente posso abbandonare in un angolo le stampelle e camminare liberamente senza che nessuno mi veda.

Mi dirigo verso la mia camera e una volta dentro lo vedo.

È possente, maestoso, regale.

Un vero e proprio gioiello ai miei occhi.

Mi avvicino e ne sfioro il legno lucido, poi mi siedo.

Davanti a lui mi sento minuscolo, ma quando lo sfioro diventiamo una cosa sola.

Guardo lo spartito e ne sfoglio alcune pagine fino ad arrivare a lei. La mia preferita.

L'inno alla gioia di Beethoven.

Sfioro il SI due volte, poi il DO e il RE e la melodia si diffonde per tutta la stanza.

Chiudo gli occhi, mi lascio trasportare dal suono dello strumento che più amo e continuo a suonare fino alla fine.

Poi ricomincio, una volta, due volte, tre.

Vengo interrotto dal suono del campanello, che mi annuncia l'arrivo di mia madre e mi avverte del fatto che ho suonato per ben due ore senza che nemmeno me ne accorgessi.

The Fighter | S. M. {Conclusa} Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora