Capitolo 16 - Fiamme

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Riley.

E' da più di due ore che provo ad addormentarmi, ma non ci riesco.

I miei occhi, di chiudersi, non ne vogliono sapere. Ho la testa troppo piena di immagini orribili, di conseguenza abbandonarmi tra le braccia di Morfeo mi risulta impossibile. Ripenso a come è iniziata la mia giornata e a come è finita.

Chi se lo sarebbe mai immaginato?

Sembrava un giorno come tanti altri, con un bellissimo sole ad illuminare le strade e i palazzi, due amici che escono insieme, quattro chiacchiere, due risate... tutto finito in tragedia.

Per colpa di cinque idioti dipendenti dalla marjuana e chissà cos'altro.

Mi alzo di scatto dal cuscino e mi siedo sul letto a gambe incrociate.

Sono furente di rabbia.

Mi passo una mano sulla fronte, madida di sudore per l'agitazione, la preoccupazione e mille altre emozioni.

Mi chiedo il perché di tanta cattiveria. Mi domando come alcune persone siano talmente egoiste, impulsive, arroganti e meschine. Accecate dall'odio. Poi mi rispondo che, senza ombra di dubbio, chi compie gesti così sconsiderati e violenti deve essere affetto da una grave patologia, e che la droga e il fumo centrino ben poco.

Ho stampate davanti tutti quei cinque ghigni, non riesco proprio a levarmeli di dosso, tanto che mi alzo e mi dirigo in bagno, come se una doccia fredda potesse servire a qualcosa.

Chiudo la porta a chiave, apro il getto dell'acqua e la fisso cadere, imbambolata.

Il volto di Shawn mi appare davanti come una visione: lo immagino nel primo istante in cui ho incrociato i suoi occhi nocciola, al tavolino del bar. I suoi capelli, scuri e ribelli, leggermente spettinati sulla fronte, il sorriso timido.

D'un tratto, quel ricordo lascia spazio a qualcosa di ben più recente.

Il suo coraggio nel difendermi qualche ora prima, l'impulso di levarsi una stampella, per lui fondamentale, e usarla contro colui che mi stava importunando.

E' come se ad una rosa togliessero i petali: non esisterebbe.

Shawn si è privato della cosa più importante, dell'oggetto che lo aiuta a camminare meglio, per me. Per me.

Al solo pensiero una lacrima si fa spazio, impertinente, tra le mie ciglia inferiori. Dopo di lei, un'altra e altre ancora.

Piango piano, quasi in silenzio, per non svegliare mio padre, ma ho bisogno di sfogarmi, di urlare, di scoppiare in un pianto liberatorio.

Perché, in fondo, mi sento terribilmente in colpa. Se non gli avessi chiesto di accompagnarmi a portare i curriculum, se non avessi deciso di parcheggiare in quel cazzo di parcheggio, lui starebbe ancora bene.

Invece ora è su un letto d'ospedale, in coma.

In tutto ciò, non mi sono nemmeno resa conto di essere entrata in doccia vestita.

Le gocce gelate mi sferzano il viso facendomi male, ma nessun dolore può essere paragonato alla vista di un amico la cui vita è appesa a un filo.

Lo rivedo vestito di bianco, coperto da un candido lenzuolo.

Il viso inerme, ma il cuore che ancora, fortunatamente, batte.

La mano tiepida che non stringe la mia.

Le labbra chiuse, inespressive.

Devi farcela morettino, penso col cuore in gola e mille paure che, invece, succeda il contrario.

Al solo pensiero mi volto, chiudo il rubinetto dell'acqua e mi precipito fuori dal box. Mi dirigo, fradicia e gocciolante, in camera mia, mi spoglio dei vestiti bagnati e mi asciugo velocemente con un asciugamano. Poi indosso dei vestiti puliti senza nemmeno curarmi di abbinarli, come di solito faccio, e scendo le scale.

Lentamente apro la porta di casa e la richiudo alle mie spalle. Salto in macchina e guido alla volta dell'ospedale.

-

Chiamo l'ascensore e, una volta all'interno, premo il numero 4.

Mi guardo velocemente allo specchio e quasi mi spavento nel vedere il mio viso. Sono gonfia, ho gli occhi rossi e due occhiaie da fare invidia allo Zio Fester.

Sposto il mio sguardo sulle porte, che si aprono una volta arrivati a destinazione.

Il corridoio davanti a me è deserto. Meglio così dato che sono le tre e mezza di notte e non potrei nemmeno stare qui.

Non credo che le visite siano consentite a quest'ora, soprattutto se non si è parenti, ma non ce la facevo più ad aspettare.

Devo vederlo.

A passi incerti mi dirigo verso quella che so essere la sua stanza, con la speranza di non incontrare nessun infermiere.

Davanti alla porta bianca mi fermo e deglutisco. Sento la gola bruciare da quanto è secca, e mi ricordo che non bevo da ore.

Inspiro profondamente e lentamente abbasso la maniglia.

La luce è soffusa, ma i miei occhi catturano subito la sua figura.

E' nella stessa posizione in cui l'ho lasciato nel pomeriggio, ovviamente; i fili collegati ad una macchina dal rumore snervante e terrificante.

Passo dopo passo mi avvicino al letto, ma ad ogni centimetro di distanza che mi separa dal ragazzo il mio cuore perde un battito.

E' troppo dura vederlo ridotto così.

Questa volta, cerco di trattenermi. Non può vedermi piangere è vero, ma magari può sentirmi, e se può, non voglio che ascolti i miei singhiozzi.

Mi perdo ad osservare i dettagli del suo viso, come se non li conoscessi già abbastanza bene, per parecchi minuti, e quando scorgo l'ora sull'orologio appeso alla parete, mi rendo conto che sono già passati venti minuti. Venti minuti in cui non sono stata in grado di dire una sola parola.

Con dita tremanti gli accarezzo i capelli con la speranza che sulle sue labbra piene compaia un accenno di sorriso. Gli sfioro le guance e scendo, delicatamente, sul collo liscio come la buccia di una pesca.

Quel gesto un po' mi imbarazza, ma allo stesso tempo mi provoca un brivido di piacere.

Quella sensazione fa scattare in me qualcosa di nuovo, che prima d'ora, con lui, non avevo mai provato. O meglio, non avevo mai provato così intensamente.

Ho sempre sostenuto che fosse un bel ragazzo ma non tanto da... provare qualcosa.

Avvampo al solo pensiero.

Più lo guardo e più mi viene voglia di avvicinarmi alla sua bocca con la mia.

So che posso sembrare un'approfittatrice, ma lo faccio.

Lo scruto qualche altro secondo col corpo che mi trema, prima di posare i palmi delle mie mani sulle gote e lasciargli un bacio dolce e troppo veloce.

Presa da una fiammata potente, afferro la borsa che ho lasciato sulla sedia accanto al letto e corro fuori dalla stanza senza nemmeno avergli parlato, come invece avrei voluto fare.

The Fighter | S. M. {Conclusa} Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora