So

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«Buongiorno.» Dissi, entrando in cucina.

Dilatai un po’ di più gli occhi, sperando di non trovare nessuno nella piccola stanza calda, di poter far tardi a scuola quanto volevo, di poter evitare altri discorsi e rimproveri di prima mattina. Ma mi sorpresi quando inquadrai due figure sedute al tavolo, silenziosamente.

Lui, era, lì.

Se non sbagliavo aveva il turno –come tutti i giorni- di mattina, come mai era in cucina con lei?!

Mi sentii a disagio in sua presenza, come se le cose cattive potessero accadere da un momento all’altro.  Mi sedetti semplicemente di fronte a lui, non volendo creare una discussione.

«Ti porto io questa mattina a scuola.» Il suo sguardo mi inquadrò.

«Non ce n’è bisogno.» Risposi seccata non riuscendo a incontrare i suoi occhi scuri.

«Invece si, voglio farlo.» Ribadì l’uomo prepotente nella mia prospettiva.

«No —»

«Ho detto che voglio farlo.» Ringhiò, battendo il pugno sul tavolo. Sussultai alla sua reazione improvvisa, come anche lei aveva fatto. Non avevo scelta che annuire, per lei. Dopodiché si alzò, e uscì dalla stanza.

«Tu stai bene, ti ha fatto nulla?»

Strinsi il suo braccio, temendo l’avesse toccata.

«No, a me non ha fatto nulla ma ti prego, non opporti o ti farà ancora del male.»

Quasi mi pregò. Nei suoi occhi c’era disperazione.

«D’accordo.» Le promisi, stringendo ancora la sua mano prima di alzarmi e vestirmi per la scuola.

Calze nere, pantaloncino di jeans e maglietta dentro. Dr. Martens ai piedi e pronta per la scuola. Ero pronta finché non dovetti sedermi accanto a quella specie di mostro con cui ero in macchina. Piantai il mio didietro sul sedile, senza dire niente e senza considerarlo minimamente.

Sentii il motore riscaldarsi prima che il veicolo si muovesse verso la strada per la scuola.

«Se pensi che portarmi a scuola serva a farti perdonare, ti sbagli di grosso.» Sbottai nel bel mezzo del silenzio. Girò il capo verso di me lentamente, ma io mantenni la vista oltre il vetro. Esitò prima di prendere un respiro e parlare.

«Ascolta» La sua voce roca mi aveva sempre provocato dei brividi; forse per il troppo fumo le era venuta. «So di aver fatto tanti errori nella mia vita, ma tua zia non è uno di quelli. Io la amo —»

«Davvero? E allora perché picchiarla ogni santa volta che torni a casa? Quello non è amore.» Il mio tono non era di certo di suo gradimento.

«Non l’ho picchiata semp —» Sospirò, mantenendo tutta la calma che aveva in corpo.

«Ma per favore!» Imprecai. Non mi resi conto della situazione, mi dava fastidio semplicemente il suo comportamento. Il tipo di persona che mia zia teneva al suo fianco. Ma sbarrai gli occhi ben presto, quando il mio polso venne intrappolato da una mano robusta.

«Mi sono stancato di te. Non provare a dire niente ai tuoi genitori o ad uno dei tuoi amichetti, o tu e tua zia finirete peggio di quanto tu possa immaginare. Chiaro?» Sussurrò, quasi una minaccia.

Annuii lentamente, sfilando il mio braccio dalla sua presa.

«E tu questo lo chiami amore?» Chiesi retoricamente, aprendo lo sportello e precipitandomi al di fuori.

Che schifo.

Percorsi l’ultimo tratto di strada a piedi fino all’edificio chiaro dove tutti i ragazzi era radunati per entrare. Era normale per me ricevere attenzioni quando passavo, da qualcuno qua o là, magari commenti sui miei pantaloni strappati o sul cappello nero; ma quella mattina sembrava fossi più interessante che mai. La gente ha occhi come quelli delle civette: pronti a scrutarti in ogni mossa, senza scrupoli.  Negli occhi dei ragazzi c’era disgusto, come se volessero evitarmi. Che diavolo avevo fatto quella volta? L’ultimo episodio che ricordavo aveva provocato quelle occhiatacce, seguite dai bigliettini in classe era quando qualcuno mi aveva sorpresa a farmi una canna prima di scuola, ma diamine erano passati mesi da quella volta e le voci erano durate giusto un paio di giorni, visto che non ero la sola. Quella mattina però, le persone sparlavano. E questo non era un buon segno. Lo faceva tutti, anche i più secchioni e anche i più popolari.

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