Here I stay.

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"Can we pretend that airplanes in the night sky are like shooting stars,

i could really use a wish right now."

Mi rigirai per la decima volta quella notte, socchiudendo gli occhi che cercavano di rintanarsi nei sogni più lontani da quella realtà, senza riuscirci. Allungai una mano sopra la mia testa, e subito una luce giallastra e calda invase la stanza precedentemente buia.

Sbattei la schiena contro il ferro battuto del letto, strofinandomi energicamente il viso fra le mani.

Erano giorni ormai che non riuscivo a dormire. Rimanevo sveglia come per constatare che fosse tutto apposto. Sarei dovuta semplicemente tornare a casa, sostituire zia Marylin in cucina e poi andare a dormire, preparandomi per la straziante giornata di scuola successiva.

Ma a quanto pareva, preferivo giocare a nascondino nel buio piuttosto che immergermi nei sogni. E forse era proprio quello a mettermi paura. Quella sensazione di impotenza, di incoscienza. Perché nessuno sa cosa c’è nel buio, a meno che non lo attraversi. E io da piccola ero sempre stata una bambina a cui il buio piaceva. Piaceva e raccapricciava.In quel periodo mi spaventava semplicemente.

Mi spaventava il pensiero di rintanarmi nel mio letto, quando qualcuno avrebbe potuto benissimo entrare nella mia stanza come se nulla fosse, o in quella di Marylin, mentre dormivamo assorte nei nostri sogni.

Oh, Marylin: io non ho idea di cosa fare con te.

Dopo la domanda del dottore “Signorina Bass, chi ha fatto tanto male a sua zia, da farle pensare di aver perso il bambino?”, a cui tra l’altro non avevo saputo rispondere, mi ero portata via zia, prima di cedere alla tentazione di raccontare tutto. Ed il problema stava proprio in quella domanda; non la solita “Che cos’è successo?” chiara e tonda, no, il dottore aveva scoccato la freccia nel centro. Chi le aveva fatto così male? Quale essere avrebbe potuto?

Un solo nome.

Un nome che rispondeva a tutte le mie domande e a tutti i miei problemi.

Ecco la porta che sbatte, i scarponi gettarsi sui gradini freddi delle scale e il suo fiato pesante uscire a continui sbuffi dalla sua bocca.

Ogni sera, aspettavo quei segnali per giovare delle mie ore di sonno.

E ogni sera mi ponevo il dubbio che io non avessi paura di lui. Ma io ne avevo, ormai. Avevo paura che potesse aprire la porta sbagliata, fiondandosi nel mio letto per mettermi le mani addosso, in tutti i sensi possibili. E la parte peggiore, era che io sapevo che prima o poi quel giorno sarebbe arrivato.

Il giorno in cui, il rumore del legno avrebbe sbattuto più violentemente, la sua voce si sarebbe alzata e lui sarebbe corso nella mia stanza per sfogarsi.

Perché, ammettiamolo, come avrebbe potuto fare ciò che una volta faceva con una donna fragile, incinta e con una pancia che diventava sempre più evidente?

E, diciamo anche che non era stata la mia mossa migliore, minacciare di raccontare tutto se l’avesse toccata di nuovo. Adesso io ero il suo obbiettivo. Non chiedeva più niente, nemmeno si lamentava più, correva semplicemente e io non potevo oppormi.

Negli ultimi sette giorni, si e no, quattro erano quelli in cui lui si era recato da me, la sera e aveva messo in atto le sue buone maniere. Prima le grida –che ogni volta cercavo di placare il più possibile-, poi il polso, ormai rosso, e infine usufruiva della mossa che aveva più influenza su di me. Alla fine della serata avevo sempre qualche segno in più, che rimanevano tali e non erano mai qualcosa di permanente. Per mia fortuna infatti, ancora non aveva bisogno di sfoghi sessuali.

The monsterDove le storie prendono vita. Scoprilo ora