Toxic.

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"You're dangerous, i'm lovin' it."

"Don't you know that you're toxic."

Sentivo il calore dei raggi solari bruciarmi la pelle. Le tende non erano nemmeno lontanamente socchiuse e il sole puntava proprio al mio corpo scoperto e al viso assonnato. Accarezzai il materasso sotto di me in cerca del lenzuolo precedentemente in sommità. Lo scostai completamente permettendomi di alzarmi e prepararmi per la scuola.

La scuola. L’ultimo posto in cui sarei voluta essere quella mattina. E l’ultimo posto in cui la mia mente sarebbe stata. Probabilmente l’avrei lasciata a vagare in giro come gli altri giorni. Piuttosto, afferrai la prima maglia bianca che usciva dal cassettone in legno, dei jeans chiari strappati e, con le gambe che cercavano di rimanere in equilibrio, mi diressi verso il bagno. Lo specchio rifletté una me piuttosto mal ridotta. Dai capelli arruffati, al trucco nero colato su tutte le guance, non considerando poi il fatto che mi trovassi solo in intimo.

La sera prima mi ero disfatta di ogni tipo di fattore stressante –compresi i miei vestiti, a quanto pareva- e mi ero gettata sul materasso, lasciandomi trasportare via dai ricordi dei bei momenti rimasti dentro di me.

La mia stanza aveva ancora le prove incriminanti di una sfuriata finita piuttosto male: la mia borsa era vuotata in un angolo della stanza, i quadri della mia famiglia o di me e Ben erano a terra e la finestra era ancora aperta per permettermi di rientrare la notte prima.

Mi lavai frettolosamente la faccia, infilai velocemente le mie converse e uscii di casa ancora prima del mio solito orario. Lasciai l’abitazione nello stesso stato in cui l’avevo trovata la sera precedente.

Silenziosa; così tanto, che mi portò a chiedermi se fosse tutto apposto. Ma dallo spiraglio della porta della loro stanza, sembravano solo una coppia normale.

Cosa che non erano. Quella famiglia, quella coppia, era tutto tranne che normale. Si può dire che fossimo lontani miglia dall’essere normali.

Il sole picchiava ancora sul mio viso nonostante fosse Dicembre. Erano appena le sei del mattino e io mi trovavo a vagare tra l’erba bagnata dalla brezza mattutina in un prato. Era bello poter guardare l’alba non attraverso una finestra o uno schermo. Era bello sentirsi così soli e in pace per una volta. Per qualcuno sarebbe potuto essere triste, ma non per me. Era quel tipo di solitudine, che faceva piacere.

Senza voci di bambini intorno, senza rumori di macchine o clacson. Se fossi stata sempre e solo così sola, mi sarebbe addirittura piaciuto. Ma no, io ero molto più sola di così, anche a scuola, dove i ragazzi trovano sempre qualcuno con cui stare. Qualcuno con cui ritrovarsi per pranzo, o per un progetto scolastico.

Se un professore avesse proposto ad un mio compagno una nostra collaborazione, probabilmente questo si sarebbe rifiutato o almeno, avrebbe sbuffato per metà del tempo passato insieme.

E mi ci stavo quasi abituando, ma l’assenza di un amico si faceva sentire. L’assenza di Ben e dei suoi sorrisi. L’assenza dei suoi pettegolezzi di prima mattina sulle minigonne troppo mini di qualche altra ragazza che alla fine si portava a letto o con cui flirtava. Perché Ben era davvero un bel ragazzo. Una di quelle bellezze comuni, ma particolari. Niente capelli biondi, niente occhi azzurri e profondi. Aveva quel suo sorriso che spuntava sempre da un lembo delle labbra, i capelli bruni sempre arruffati, spesso intrappolati in un cappello, le mani nelle tasche e gli occhi pieni di sogni e speranza. Aveva quel pizzico di personalità che, non so se gli altri la vedessero, ma io si, e l’amavo. Almeno quanto amavo lui. Era quell’amore-attrazione fisica, quell’amore che saremmo anche potuti scappare insieme, senza il bisogno di nient’altro o nessun’altro. Lo avrei anche potuto sposare. Senza anelli, cerimonie, solo io, lui e una promessa che sarebbe valsa per tutta la vita e oltre. Perché io sapevo che lui non mi avrebbe mai tradito.

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