"Nobody said it was easy."
Subito dopo lo svanimento dell’effetto che era in possesso del corpo di Justin avevamo cominciato a ridere senza riuscire a smettere. Eravamo andati avanti così per una buona mezz’ora. Ed era bellissimo perché non ci eravamo scambiati parole o grida eppure non avevamo sentito il bisogno di nient’altro o nessun’altro.
Avevamo saltato la prima ora occupando il tempo restante parlando di tutto e di nulla allo stesso tempo. Avevamo scambiato poche parole ma avevamo detto tutto ciò che c’era da dire, come se esse ad un certo punto si prosciugassero e il silenzio fosse impossibile da rompere.
Mi aveva raccontato di lui e Andrea, della loro relazione in picchiata. Sembrava che lei fosse troppo ossessiva, e quello mi ricordò ciò che era successo la stessa mattina, e allora tacqui.
Non era da me mettere i bastoni fra le ruote per così poco senza una solida ragione, e io non ne avevo una. Almeno credevo.
Lì arrivo nuovamente il silenzio, che ruppi io raccontandogli della mia partenza. Più che altro gli raccontai del perché mi sarei trasferita definitivamente dai miei genitori. Era strano pensare di tornare alla solita routine, alla quotidianità. In quei sei mesi ero cambiata, forse troppo, e non ero pronta a tornare alla mia vecchia scuola, alla testa bassa nei corridoi, a Ben... e quando pensai a lui una fitta assalì il mio stomaco.
Era il mio migliore amico. Lo avrei potuto non rivedere per il resto della mia vita, avrebbe potuto mandarmi a quel paese e dirmi che dovevo dimenticarlo, dire di odiarmi, ma sarebbe sempre rimasta la persona migliore che io avessi avuto nella mia vita. Era stata l’unica persona su cui avessi potuto contare per un anno intero.
Un anno che per chiunque poteva sembrare solo pieno di 365 giorni, ma per noi era stato molto di più. Aveva contenuto risate, grida, pianti, uscite di nascosto, pettegolezzi. Era stato pieno di giornate al mare in cui lui mi diceva di essere bellissima, di non dovermi vergognare del mio corpo che io vedevo solo come una maledizione enorme. Ed era solo grazie a lui se io ero ancora lì, se ero resistita un anno in più.
Era stato un anno pieno delle serate con pizza e patatine insieme ai film che avevano fatto la storia del cinema. O i pomeriggi in cui facevamo la gare a chi arrivava prima da ‘Nando’s’ e poi mangiando camminavamo per le strade buie dell’Alabama.
Io amavo la sera. Noi amavamo la sera. C’era qualcosa di meraviglioso nella tranquillità della notte che ci affascinava. L’aria fresca di Maggio, le stelle nel cielo chiaro, la sua risata insieme al rumore delle macchine che passavano in sottofondo.
Era un peccato sapere che una volta tornati nelle nostre case, nei nostri quartieri, nella nostra scuola, tutto sarebbe tornato come prima. Lui che si vergognava persino di ammettere che sognava il piercing al labbro, di tenere stretta la mano della propria ragazza invece di sbatterla al muro quando si presentava l’occasione.
Ed era un peccato perché Ben, lui era proprio il tipo di ragazzo che io avrei voluto, che Lizzie avrebbe voluto. Alzai le spalle incurante e cancellai quei pensieri dalla mia mente; Justin mi stava guardando e probabilmente mi aveva guardata per tutto quel tempo mentre ero assorta nei miei pensieri e non avevo ascoltato ciò che aveva da dire.
«Scusa, che cosa hai detto?» chiesi mortificata.
«No, niente. Ti stavo solo guardando...» Schiusi le labbra come per dire qualcosa, ma lasciai solo andare un rivolo di fiato e abbassai lo sguardo.
«Sono un disastro stamattina.» Ammisi sorridendo. Le nostre gambe erano ancora accavallate, intrecciate e piegate per farci spazio in quel cumulo stretto in cui ci trovavamo, con una vicinanza che mi piaceva.
«A dire il vero lo sei sempre.» Scherzò ricevendo una leggera botta da parte mia. «Ti sta bene.»
«Che cosa?»
«Il disastro. Ti sta bene.»
I ragazzi solitamente alle ragazze dicono che sono bellissime non pensandolo davvero e volendo solo conquistarle, o magari sì. Oppure confessano che hanno dei bei occhi, dei bei capelli o un bel sorriso. Le affascinano con bugie su bugie, montagne di complimenti che poi sono il risultato di relazioni disastrose o finte, raramente vere.
Perché anche le donne sono così: vogliono sentirsi belle, sentirsi dire di essere la più bella, ma essere tradite dietro.
Vogliono apparire sexy, sensuali, meravigliose, eccezionali, talentuose, magnifiche, attraenti; e a me era bastato quello.
Essere un disastro.
Non appena i corridoi ebbero smaltito tutte le voci che contenevano durante il cambio dell’ora eravamo usciti furtivamente dal ripostiglio ed eravamo corsi verso il campo da football posteriore all’edificio della scuola. Ed avevamo corso continuando a ridere e a prendere boccate d’aria immense per poi ricominciare.
Dopo qualche centinaio di metri cominciammo a rallentare con il fiato corto e la voglia di respirare aria fresca e pulita. Non proferimmo parola nemmeno nei minuti successivi, troppo impegnati nel renderci conto di ciò che stava accadendo. Non ci sentimmo nemmeno in imbarazzo immersi in un silenzio tranquillo, smorzato da qualche vecchietta che urlava alle macchine passanti di rallentare. Poi Justin sorrise, con uno di quei sorrisi maliziosi che mi facevano impazzire, mi prese la mano senza chiedere il permesso, con una certa fermezza e ci immergemmo nel gregge di persone che percorreva animatamente il marciapiede al lato della strada principale.
Si fermò solo dopo svariati minuti davanti ad un piccolo locale con un’insegna molto bizzarra su cui era inciso: ‘Luke’s ice-creams’ e accanto un gelato parlante.
«Quando pensavo che mi avresti portato a mangiare, non avrei mai immaginato un gelato in pieno Dicembre.» ironizzai prendendolo in giro ed entrando dopo di lui.
«Ti sorprenderà cosa può uscire da un locale come questo.» E subito dopo rivolse la sua attenzione ad un omone dietro il bancone di vetro con i baffi che gli solleticavano le guance quando rideva.
«Ehi, Luke!» salutò il ragazzo accanto a me sfoggiando un gran sorriso.
«Justin! Sono giorni che non vieni.» ricambiò il sorriso come se si conoscessero da anni, e magari era così. «E così è lei la fortunata di cui ci parli da tempo! E di cui proprio non ricordo il nome...» Portò lo sguardo su di me e non feci in tempo a sorridere che mi trovai a dover contestare. Justin voltò subito il capo verso di me scuotendo la testa e preparandosi per negare tutto, quando si fermò e resto a guardarmi negli occhi.
«Si, è lei. Samantha, Samantha Bass.»
Rimasi spiazzata da quelle parole ma Justin già stava rivolgendo altri saluti ad una donna minuta che era appena uscita dalla porta della cucina.
Dopo qualche chiacchiera mi ritrovai anch’io fra le braccia della donna e subito dopo ci vennero serviti due palle di ghiaccio e sciroppo alla frutta ricoperte da altro sciroppo alla fragola.
In un altro momento e con un’altra persona avrei rifiutato, ma Justin era stato così dolce quella mattina che non riuscii a non sorridere con la voglia di gustarci quel gelato-granita insieme.
«Li conosci da molto?» chiesi volgendo lo sguardo verso di lui mentre eravamo per strada cercando di capire come mangiare quel misto di sciroppi.
«Sono amici di famiglia. Il loro figlio si trova in Canada e loro molto spesso vengono a trovarlo.» spiegò e riprese a mangiare ciò che aveva nella coppetta.
Presi un respiro prima di parlare.
«Perché gli hai detto che io sono la tua ragazza?»
Con la coda dell’occhio intravidi il suo viso e mi aspettai di trovare la mascella contratta, i muscoli irrigiditi come accadeva quando non gli andava di parlare di un certo argomento, e non perché non si fidasse di me, ma perché molti erano ricordi o spiegazioni sgradevoli che lo mettevano a disagio. Invece il suo viso era rilassato, come se si aspettasse già quella domanda.
«Perché se gli avessi portato la mia vera ragazza sarebbero rimasti delusi. Lei non è proprio il mio tipo.»
Chiusi gli occhi e lasciai crescere la frustrazione dentro di me.
«Dio, Justin! Ti preoccupi così tanto di quello che gli altri pensano che non sei chi tu vorresti essere. Sono incazzata con te perché hai paura di mostrare al mondo chi è la tua ragazza e ancora più incazzata con te perché ti sei reso conto solo ora che lei è sbagliata per te!» Ci fermammo all’angolo di un marciapiede e lo vidi ridere sotto i baffi e ciò mi fece salire ancora di più la frustrazione che si era impossessata di me.
«Non ho mai detto che lei fosse sbagliata per me. Gelosa per caso, Bass?» scherzò con un tono provocante.
«Vaffanculo!» sbottai, gettando la granita in un secchio e incamminandomi per la strada.
Ad un tratto mi sentii fermare per un braccio e, quando mi girai, Justin stava ridendo con un sorriso a trentadue denti sul volto che mi fece venir voglia di prenderlo a pizze. Eppure non ci riuscii, e cominciai a ridere anche io.
Quando delle gocce d’acqua cominciarono a bagnare i nostri vestiti, corremmo per la strada fino a rifugiarci sotto una quercia, appollaiati su una piccola panchina logorata dal tempo.
L’odore della pioggia e dell’erba bagnata insiemee ci inebriavano l’olfatto mentre Justin lasciava la granita che gli era rimasta a me e ogni tanto mi rubava qualche boccone.
«Uhm, lo sciroppo di fragola sul fondo del bicchiere lo voglio io!» affermò cercando di rubarmi il bicchiere che io avevo già portato alle labbra con dispetto. Quando afferrò saldamente l’oggetto, sentii del liquido alla fragola scendermi lungo il labbro e il resto lo vidi finire nella bocca di Justin. Il suo viso si soffermò sulle mie labbra che stavo cercando di pulire con il dito e poi lo vidi voltare nuovamente lo sguardo diritto davanti a lui.
«Mi farai morire un giorno di questi.» disse alzando un lembo di labbra e continuando a sorseggiare il fondo del bicchiere cercando di gustarne anche l’ultima goccia. «Pulisciti quel labbro.» scherzò indicandomi. Risi alla sua affermazione e con la manica della felpa pulii dove necessario.
Poi Justin mi indicò una finestra al quinto piano di un palazzo, illuminata da una luce giallastra da cui si poteva intravedere una vecchia signora che ballava probabilmente con una musica di sottofondo. Oppure un vecchio maggiolino bianco ci passò davanti e attirò la nostra attenzione prima di schizzarci l’acqua dalle pozzanghere e farci imprecare.
Cominciammo a correre per non bagnarci e a ridere contemporaneamente.
Ridemmo, ridemmo, ridemmo senza stancarci e senza voler smettere. Passeggiamo per i prati prima di metterci a correre: io davanti a lui che cercavo di non farmi prendere e lui dietro che cercava di raggiungermi.
E in quel momento, sperai proprio che mi prendesse.
Justin mi riaccompagnò a casa e mi lasciò sulla porta principale con un dolce bacio sulla guancia. Ci salutammo per rivederci il giorno dopo, io salii di fretta le scale e lo seguii incamminarsi per le strade umide con lo sguardo finché la sua figura non divenne un semplice puntino nero all’orizzonte.
Il sole stava tramontando e lui mi aveva riportata proprio nell’orario in cui sarei dovuta essere a casa a prepararmi per poi riuscire ed andare in palestra.
Sentii il telefono squillare nella borsa e quando lessi il nome sullo schermo, sussultai.
Era Cam.
Sentii dì improvviso lo stomaco sottosopra e l’idea del tutto sbagliata di un appuntamento con lui. Era come se qualcosa fosse cambiato con lui, con Justin, con me.
Alzai la cornetta ma non dissi nulla.
«Ehi, bellezza!» disse esuberante Cam dall’altra parte della telefonata.
«Ehi, Cam.»
«Qualcosa non va? Ti ricordi ancora del nostro appuntamento?» chiese ed io annuii titubante nonostante lui non potesse vedermi. «Perché ho una sorpresa per te. Stasera alle otto al parco sulla Ivy Street.»
Spalancai gli occhi. Era quella sera, appena due ore dopo.
«Io...»
«Non accetto un ‘no’ come risposta! A dopo, bellezza.» Potei immaginarlo ammiccare mentre pronunciava le ultime parole.
In fondo era solo un’uscita, non avrebbe implicato nulla. Non mi sarei dovuta preoccupare. Che poi di cosa? Di Justin? Justin era fidanzato e io stavo per uscire con un ragazzo che mi piaceva, e anche parecchio.
«Ci sarò.» mormorai contro il telefono, senza che ci fosse nessuno dall’altra parte della cornetta.
Il prato era umido, ricoperto dalla brina e dalla traccia della pioggia di qualche ora prima. Ci impiegai svariati minuti prima di individuare la figura del ragazzo che mi attendeva. Era seduto su una coperta stesa sull’erba, sopra si trovava una rosa rossa sbocciata e bellissima, un mazzo di margherite bianche appena colte, quelli che sembravano dei tramezzini e una candela che illuminava il cielo stellato.
Quando Cam si girò nella mia direzione, i suoi occhi vennero illuminati dall’alone della fiamma e sembrarono più neri del solito, brillanti, come se fossero fatti di cristallo. Poi mi sorrise, con quel suo sorriso che mi rassicurava e mi attraeva allo stesso tempo. Si alzò portando alla bocca la sigaretta che teneva con una delle mani; la sua camicia bianca –come l’avevo immaginata- era stropicciata e slacciata vicino al colletto bianco. I capelli erano disordinati sul capo e i jeans attillati lasciavano intravedere la V sui suoi fianchi.
Si avvicinò a me sussurrandomi qualcosa all’orecchio e lasciandomi assaporare l’odore di sigaretta che, dovevo ammettere, un po’ mi mancava. Più di tutto, mi mancava la sensazione quando ti gira la testa che hai subito dopo aver fumato di fretta o le tue prime sigarette. Mi mancava la sensazione del fumo che esce dalla bocca e si disperde nell’aria.
Perché la sigaretta in se, faceva schifo. Tutto ciò che dicevano sul ‘dimenticare ciò che hai intorno’ o sul ‘rilassare le persone agitate’ non era fottutamente vero. Almeno non su di me. Anzi, faceva schifo sentire il fumo scendere per la gola.
Eppure, quando uno fuma, vuole sempre rifarlo una seconda volta. Ne è attratto.
E a me attraeva Cam e avevo una voglia pazza di assaporare quelle labbra che stavano schioccando un’altra nuvoletta di fumo fuori dalla bocca. E avevo anche una voglia matta di baciare Justin, ma non lo avrei mai ammesso. Avevo avuto quella voglia la stessa mattina, quando eravamo stati rinchiusi nello stanzino e lui era mezzo fatto, anzi lo era del tutto. Era strano da pensare, ma era se stesso, cazzo.
Non gli era importato di essere arrivato tardi alla lezione, di non aver parlato o fatto altro con la sua ragazza davanti a tutti, non gli era importato di non aver indossato la giacca con lo stemma della squadra di football, ed era stato semplicemente Justin.
E semplicemente Justin per me era fantastico e avrei voluto dirgli anche quello. Avevo avuto nuovamente la voglia di baciarlo anche quando mi aveva guardato le labbra e subito dopo aveva sorriso solo da un lato della bocca, con il viso contornato dai capelli umidi e dalla pelle liscia e olivastra.
Cam e Justin erano così diversi, così opposti. Così belli. E io quella sera avevo voglia di fare una pazzia, di provare una sensazione migliore di quella della sigaretta, del fumo, dell’effetto della canna, dell’alcool nel corpo, io volevo baciarlo da morire.
E lo feci.
L’unico problema era che mentre io e Cam eravamo stesi sul suo letto, nella sua stanza, io stavo pensando ad altro. O meglio, ad un altro.
Io stavo pensando a Justin e stavo desiderando di baciare lui.
STAI LEGGENDO
The monster
FanfictionC'era solo un pensiero che mi gironzolava nella testa, che mi rifiutavo di ammettere pur sapendo che aveva ragione. Io ero come Chaz. Un mostro. E un mostro non può cambiare. - Dal capitolo 16: Sentii il suo tocco leggero e caldo sulle mie palpebre...