"First, you think the worst is a broken heart,
what's gonna kill you is the second part."
Saltai la scuola anche quel giorno.
Non m’importava. Non m’importava più realmente e fisicamente di nulla.
Mi trascinai per le vie malandate di quella città, per i vicoli mai percorsi e i volti mai conosciuti. Per le strade dove le persone si guadagnavano da vivere con l’elemosina e dove i figli dovevano raccogliere i genitori ubriachi dalla strada o tirarli fuori da qualche impiccio di soldi e affari sporchi.
Per quanto avessi subito e sofferto di bullismo, bulimia, violenza, inganni e tradimenti, anoressia e dipendenze, mi sentii una stupida a lamentarmi per ciò che mi faceva stare male. Perché io avevo una casa, io avevo del cibo da mangiare, un lavoro e una famiglia. Io andavo a scuola la mattina invece che dover lavorare per venti dollari al giorno.
Eppure il dolore è così soggettivo. Ognuno reagisce come può, si fa forza e va avanti a testa alta o crolla.
E io ero crollata.
Mi avvicinai ad un barbone all’angolo di una strada umida per la pioggia, lasciai scivolare la borsa dalla spalla e mi inginocchiai davanti a quel povero vecchio che cercava del calore in una coperta bucata e maleodorante.
Lo vidi alzare lo sguardo, studiarmi come se fossi un angelo. Come se anche solo sorridergli come stavo facendo fosse qualcosa di tanto importante come ricevere un regalo a Natale per noi.
«Che ci fai qui?» mormorò con voce roca contro il tessuto leggero in cui era aggrovigliato.
«Parlo con te» risposi con gentilezza.
«Nessuno mai si avvicina neppure.» I suoi occhi divennero lucidi e non avrei saputo dire se fosse per la folata di vento che aveva tirato, per la tristezza o la gioia.
Esitai prima di rispondere. Pensai che magari una volta era un uomo stimato, magari un avvocato, un dottore che poi aveva perso tutto. Poteva avere una famiglia da qualche parte che l’aveva abbandonato e non riuscii ad immaginare disonore peggiore.
«Neanche a me» ironizzai, rubandogli un mezzo sorriso.
Sfilai dalla borsa il panino e la bottiglia d’acqua che zia Marylin aveva preparato per me e insieme a due banconote da venti dollari li lasciai accanto a quello che doveva essere il suo zaino. Mi sfilai di dosso anche il giacchetto che indossavo e mi ringraziai mentalmente per averne indossato uno di quelli da uomo che avevo.
Gli rivolsi un ultimo sorriso e poi mi allontanai alla ricerca di un supermercato aperto. Mi ero tenuta venti dollari che spesi quasi tutti.
Quel pomeriggio mangiai un’insalata rannicchiata su una panchina per le strade di Brooklyn mentre le persone mi sfrecciavano davanti come se ci fosse qualcosa di più importante da fare che realizzare una buona azione per qualcun altro. Che stare con la propria famiglia e i propri cari o dedicare una giornata ai propri genitori invecchiati e soli.
Lasciai vari messaggi sulla segreteria di mia zia per avvertirla che non sarei tornata a casa per quel pomeriggio ma che avrei cenato con loro come voleva lei. E poi aggiunsi che le volevo bene e apprezzavo ciò che stava facendo per me.
Se dovevo distruggermi, lo avrei fatto in silenzio, senza coinvolgere le persone che mi volevano bene perché non era colpa loro se gli ero capitata proprio io come nipote, figlia, amica o ragazza.
Mi diressi direttamente verso la palestra, lasciando passare il tempo con la musica per tutto il tragitto a piedi. Non mi resi conto di ciò che stava accadendo intorno finché non mi accorsi che l’aula in cui il giorno precedente ci eravamo esercitati io e Cam era silenziosa e buia. Avrei voluto chiudere gli occhi e immergermi in quel silenzio, in quel bellissimo silenzio. Dove se avessi pianto, nessuno avrebbe visto nulla e se avessi gridato, nessuno si sarebbe preoccupato perché la voce sarebbe stata smorzata dalla musica su cui, nella sala accanto, stavano ballando.
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The monster
FanficC'era solo un pensiero che mi gironzolava nella testa, che mi rifiutavo di ammettere pur sapendo che aveva ragione. Io ero come Chaz. Un mostro. E un mostro non può cambiare. - Dal capitolo 16: Sentii il suo tocco leggero e caldo sulle mie palpebre...