2. Perdonami

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«Tu devi essere Megan.»

Sussultai. Non mi ero accorta che il figlio dell'avvocato Finnston era arrivato e ora era in piedi davanti a me. Come il padre, anch'egli se ne stava con le scarpe in casa. Indossava dei jeans neri e un maglione grigio con scollo a V, il quale lasciava intravedere una camicia bianca. A differenza del padre, non si era fatto la barba e non aveva il gel sui capelli, come dimostrato da un piccolo ricciolo corvino che gli ricadeva sulla fronte.

Nel momento in cui i nostri sguardi si incrociarono, schiusi leggermente le labbra e così fece anche lui. Poi si schiarì la gola. «Ehm, io sono David, penso che mio padre ti abbia parlato di me.»

Tese la mano verso di me e io la strinsi, seppur non con troppa convinzione. La sua stretta invece era forte e decisa, mi trasmise sicurezza.

«Sembri tesa» disse poi. «Se hai questa faccia mentre parli con me, non oso immaginare come ti porrai davanti allo sceriffo.»

«Era una battuta?» domandai inarcando un sopracciglio. La mia migliore amica era morta e, per quanto ne sapevano tutti gli altri, era scomparsa, perciò che faccia avrei dovuto avere secondo lui?

«No, un consiglio, piuttosto. Devi convincere le persone che ti stanno ad ascoltare che hai la coscienza pulita. A me non interessa se questo sia effettivamente vero o meno, ma alla polizia sì. Devi avere il pieno controllo delle tue emozioni e delle tue espressioni. Te lo si legge in faccia che sai qualcosa, Megan.»

Ecco. Quella maledetta frase. "Te lo si legge in faccia". E se l'aveva capito un principiante, allora non avevo proprio scampo. Lo sceriffo Kowalski avrebbe capito tutto senza neanche starmi a sentire.

«Allora, il professor Piton insegna ancora alla Morgan High?» chiese cambiando totalmente discorso e rivolgendomi un lieve sorriso, sedendosi al mio fianco sul divano.

Ma di che stava parlando? Non ne sapevo molto di giurisprudenza, ma di certo sapevo che fare conversazione con i clienti non faceva parte del lavoro degli avvocati. Mi stava soltanto facendo perdere tempo. Per di più, non sapevo nemmeno di chi stava parlando. «Chi?» domandai, visibilmente confusa.

«Ma sì, insegnante di chimica, capelli neri, sempre unti, occhi spenti e voce da zombie, severo come un generale tedesco e con un profondo odio verso i suoi studenti.»

Mi bastarono quelle poche indicazioni per capire subito di chi stava parlando. «Il professor Kravitz. Sì, è il mio insegnante.»

«E punisce ancora i suoi studenti con il...»

«Venerdì del Terrore. Sì, lo fa ancora» lo interruppi, completando la frase al posto suo. «Io non ho mai dovuto affrontarne uno, perciò non so precisamente in cosa consista, ma Emily era rimasta sconvolta dopo essere stata punita al primo anno, tanto da non osare più dire una sola parola in nessuna delle sue lezioni. Da quello che ricordo, le aveva fatto pulire tutte le ragnatele nel buio e tetro scantinato della scuola.»

«Oh, quello non è niente in confronto a ciò che toccava fare a me. Avevo appuntamento fisso con lui ogni venerdì e ogni volta si inventava un modo nuovo per punirmi, finché un giorno non si stancò di vedere la mia faccia così spesso e per giunta in orari extra scolastici, quindi decise che non mi avrebbe più assegnato nessuna detenzione. "Se neanche i miei metodi sono riusciti a insegnarle qualcosa, signor Finnston, allora temo che non ci sia più niente da fare. Forse suo padre dovrebbe spedirla in prigione al posto dei suoi clienti, così da insegnarle il rispetto e l'educazione".»

Emisi un piccolo ghigno, che si trasformò in un vero e proprio sorriso nel momento in cui riuscì ad imitare perfettamente il suo tono di voce.
Solo allora mi resi conto che, non solo ero riuscita a sorridere, ma stavo anche parlando. Parlavo normalmente, senza piangere, senza gridare, senza ansie né preoccupazioni. Ero persino riuscita a pronunciare il nome di Emily con leggerezza, senza quasi accorgermene.

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