18. Tutto finito

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Non era stato lui. Dylan non c'entrava niente. Lucy non c'entrava niente. Mi ero sbagliata su entrambi.

Con Lucy era stato facile scusarmi e ricevere il suo perdono... ma con Dylan? Forse avevo rovinato tutto per sempre con lui. Non mi avrebbe mai perdonata. In fondo le mie non erano state proprio accuse da niente.

Ma la mia priorità al momento era, se non altro, farglielo sapere. Che gli credevo. Che mi fidavo di lui. E che non avrei mai più dubitato della sua parola né delle sue azioni.

Sfortunatamente, la campana che segnava l'inizio delle lezioni suonò dopo aver consultato il registro delle firme, così dovetti dirigermi subito in classe, rimandando le mie scuse con Dylan al prossimo cambio d'ora, che attesi con la stessa impazienza di un bambino che aspetta la mezzanotte la sera di Natale per poter aprire finalmente i regali.

Quando quel momento finalmente arrivò, uscii di fretta dalla classe e mi misi a cercarlo per ogni angolo dei corridoi. Avevo solo cinque minuti prima dell'inizio della lezione, e non avevo alcuna intenzione di rimandare ancora la nostra conversazione. Sospirai di sollievo quando lo vidi intento a parlare con alcuni dei suoi compagni di squadra, vicino agli armadietti.

Mi feci coraggio e giunsi alle sue spalle. I suoi amici si ammutolirono. Fra di loro riconobbi Gary, il quale sembrò fare un cenno nella mia direzione a Dylan, il quale subito dopo si voltò. Non appena incastrai i miei occhi nei suoi, sentii il respiro mancarmi. Il suo invece accelerò, come testimoniato dal suo petto che prese ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più frequentemente. Mi rivolse un'occhiata gelida, come l'ultima volta che ci eravamo parlati.

Poi si voltò verso i suoi amici, che annuirono comprensivi e ci lasciarono soli. Tornò a guardarmi, incrociando le spalle al petto. «Che cosa vuoi questa volta?» domandò.

A quel punto avrei dovuto iniziare a riempirlo di scuse, magari anche implorare il suo perdono, invece le parole mi morirono in gola. Quel suo sguardo, freddo e distaccato da una parte, impaziente e accusatorio dall'altra, mi metteva a dir poco sotto pressione.

Così sperai che i fatti riuscissero a esprimere ciò che io non riuscivo a dire a parole. Mi sollevai sulle punte e mi avvicinai a lui, poggiando le mie mani sulle sue guance. Si irrigidì all'istante e afferrò i miei polsi con le mani, con l'intenzione di allontanarli dal mio viso e riportarmelo lungo i fianchi. Tuttavia, aspettò a farlo. Il suo sguardo si addolcì un poco, e anche la presa sui miei polsi si fece via via sempre più leggera.

Allora cercai di diminuire la distanza che ci separava avvicinando lentamente il mio viso al suo. Dylan deglutì, spostando lo sguardo sulle mie labbra, sempre più vicine alle sue. Poi scosse la testa. «Oh, fanculo.»

Senza neanche darmi il tempo di rispondere, unì le sue labbra alle mie baciandomi con impeto e passione. Gli avvolsi subito le braccia attorno al collo, mentre lui affondò le mani fra i miei capelli. Avrei voluto far continuare quel momento all'infinito, tuttavia fummo interrotti poco dopo dal suono della campanella. Il lato positivo era che la prossima lezione ce l'avevamo insieme, così non avremmo dovuto separarci. Quindi, tenendoci per mano, ci dirigemmo in classe.

Una volta seduti, Dyl lasciò la presa sulla mia mano e mi diede un bacio sulla guancia. «Tu mi farai impazzire» disse sottovoce, rimanendo vicino al mio viso. «Non capisco più niente quando mi sei vicino» aggiunse.

«Scusami.»

«No, Meg, il mio era un complimento» disse, accennando un sorriso.

«Non mi riferivo a quello. Mi riferivo a ieri. Sono stata davvero una stronza.»

«In realtà, mi ha stupito più il tuo comportamento di oggi rispetto a quello di ieri. Com'è che hai cambiato totalmente idea nell'arco di ventiquattrore?» domandò.

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